i DAMMS Art sono un duo di designer, Daniela Arnoldi e Marco Sarzi-Sartori, lei ingegnere, lui architetto. Sono dei celebri esponenti della fiber art, arte fatta con materiale tessile, nel loro caso, materiale riciclato. Costruiscono opere di grandi dimensioni affrontando tematiche differenti, sempre di grande interesse. La loro fiber art è un medium che riescono a utilizzare come strumento già a sè stante per la grande spettacolarità del risultato finale: la figurazione del soggetto risulta così ancora più coinvolgente se non addirittura travolgente per lo spettatore: stupefacenti viste a distanza, le opere dispiegano la loro bellezza anche nei dettagli della lavorazione e permettono di essere esperite anche da molto vicino. il concept è il motore dell'idea ma la realizzazione trasmette l'intenzione attraverso il gesto artigianale minuzioso, pensato esteticamente non solo nel dettaglio ma proprio come un sistema semiotico dotato di sensi distinguibili e inequivocabili nell'insieme ma anche sovrapponibili e reinterpretabili distintamente nelle unità di dimensioni minori. I DAMSS hanno esposto ovunque, in Europa, in Cina, in America e la loro indagine dell'attualità e dell'arte attraverso la materialità interseca varie traiettorie artistiche, come la moda, il design, le installazioni. La tecnica del cucito fa da supporto alla concept art che parte dalla scelta del materiale, stoffa e e fibre di recupero che diventano linguaggio per rappresentare il mondo attuale e la cultura: ecco opere come quella dedicata al cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci, "L'ultima cena DAMSS 500", o il ciclo relativo alle città del futuro, immaginate come potrebbero essere tra 1000 anni. L'ultimo lavoro dei due artisti, "Inferno 3000", di cui abbiamo visto il backstage alla fiera dell'artigianato Abilmente Vicenza e che verrà esposto ad Abilmente Milano a novembre, celebra i 700 anni dalla morte di Dante Alghieri ed è il risultato di una riflessione su cosa potrebbe aver pensato Dante del mondo di oggi, distrutto e inquinato e irreversibilmente modificato. Probabilmente avrebbe collocato i maggiori responsabili nel I Girone del Cerchio VII (cerchio dei violenti, girone dei violenti contro il prossimo e le cose, Canto XII). le opere dei DAMSS possono essere visualizzate nella pagina dedicata del loro sito e sul loro Instagram e l'opera intera "Inferno 3000", un pannello di 12 metri per 4, sarà visibile ad Abilmente Milano dal 4 al 7 novembre 2021. Ulteriori informazioni sull'opera e Abilmente Milano ho incontrato i DAMSS ad Abilmente Vicenza per una breve intervista sulla loro opera
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i gioielli e noi: preziosità e rappresentazioni in mostra a Vicenza
A Vicenza, situato sotto la Basilica Palladiana in Piazza dei Signori c’è il Museo del Gioiello, il primo in Italia, dove sono conservati manufatti preziosi di qualsiasi epoca, fattura, materiale e finalità.
Generalmente pensiamo ai gioielli come un bene del tutto voluttuario, se non addirittura superfluo, appannaggio di donne appartenenti a ceti elevati, non ci soffermiamo assolutamente a pensare al loro valore storico, alla loro eventuale funzionalità, al messaggio di cui possono essere portatori, insomma del loro valore culturale, dove per cultura intendiamo simboli, pratiche, rappresentazioni, valori condivisi nel luogo e nel tempo da un determinato gruppo sociale.
La mostra “Gioielli Italiani” allestita al Museo del Gioiello di Vicenza è interessantissima perché è un excursus lungo tutte le declinazioni e traduzioni dell’oggetto: sono esposti quelli che intendiamo comunemente come gioielli, cioè oggetti che utilizziamo per abbellirci ma ci sono anche tantissimi altri oggetti definibili “gioielli” e che, seguendo l’idea generica alla quale ci appoggiamo quando pensiamo e ci rappresentiamo nella mente un manufatto appartenente a questa categoria di oggetti, non riconosceremmo mai come gioielli, e in alcuni casi forse avremmo anche delle perplessità.
La mostra è suddivisa per aree tematiche e già con questo tipo di suddivisione possiamo capire che l’oggetto ha un significato modificabile a seconda del contesto e del valore attribuitogli, che non sempre coincide con quello materiale: dicevo, sono esposti gioielli “convenzionali” ( uso questo tipo di etichetta al solo scopo di farmi capire) ma anche oggetti del tutto inaspettati, come collane o bracciali di materiali poveri legati a tradizioni religiose tipiche di altri luoghi ed epoche rispetto alla quella Europea attuale, o anche realizzazioni che sono la materializzazione di concetti complessi che sono il frutto di una riflessione sul sacro nella contemporaneità e della sua relazione con i materiali e con la tutela dell’ambiente.
La mostra mette in risalto l’antico, il sacro, la bellezza, l’ingegno, la ricerca intellettuale, la finezza dell’artigianato in una sorta di paesaggio del gioiello che si svolge e racconta da quelle che sono le roccaforti ideali del gioiello italiano: Arezzo, Torre del Greco, Valenza e appunto Vicenza. Ma è anche un viaggio nel tempo, nella religione, nella sfide dell’arte contemporanea, nella creatività attraverso le sale del Simbolo, della Magia, della Funzione, della Bellezza, dell’Arte, della Moda, del Design, delle Icone e del Futuro
Questa mostra è bellissima ed è per tutti perché parla dell’umanità, del rapporto tra noi e il nostro tempo, il nostro gruppo sociale di riferimento e gli altri, e con tutto ciò che può voler dire “noi” e “loro” , “adesso” e “una volta” e “domani”, “qui” e “là”.
Ho parlato di questi aspetti simbolici con la Professoressa Alba Cappellieri, direttrice del Museo del Gioiello di Vicenza, professore ordinario e presidente del Corso di Laurea in Design della Moda al Politecnico di Milano, docente a Stanford e direttrice del Master in Design del Gioiello al Politecnico di Milano.
Info su orari, biglietti e convenzioni https://www.museodelgioiello.it/it/
La mostra è suddivisa per aree tematiche nelle quali il gioiello viene idealmente collocato, quasi delle aree semantiche in cui il gioiello diventa uno strumento di espressione dei contesti sociali nel tempo. Vediamo manufatti completamente diversi tra loro e in certi casi la preziosità oggettiva è completamente assente. Quindi cosa si intende per “gioiello” esattamente? Perché si può attribuire una qualche forma di preziosità anche ad oggetti in plastica a perdere come il rosario “usa e getta” in pluriball ( dato che, tra l’altro il rosario non si butta e viene generalmente benedetto)?
Alba Cappellieri: Il Museo del Gioiello di Vicenza ha proprio l’obiettivo di far domandare al visitatore cosa è un gioiello oggi: un’espressione di ricchezza o di creatività? Un simbolo di status o di bellezza? Un investimento? Un accessorio? È artigianato, moda, arte o design? La risposta è che non esiste il gioiello universale e assoluto, ma diverse concezioni di gioiello, legate al tempo, alla cultura, al gusto, in sintesi: alla storia dell’uomo.
Al Museo del Gioiello di Vicenza il gioiello viene descritto nella sua complessità ed eterogeneità attraverso nove micro mondi – magia, simbolo, funzione, bellezza, arte, moda, design, icone e futuro – in cui non è il materiale prezioso a determinare cosa sia un gioiello e cosa no. Ecco quindi che un progetto acuto come RosAria di JoeVelluto acquisisce preziosità grazie al valore del progetto. A metà tra il simbolo, il design, il futuro e la funzione, RosAria è un rosario con una croce, realizzato in pluriball (polietilene riciclabile). Quando il fedele sta pregando, fa scorrere il rosario con le dita verso la croce, spingendo giù il modulo d’aria alla fine di ogni preghiera. Il compito è finito quando arriva alla croce e tutte le bolle vengono fatte saltare in aria. Il concetto di prodotto industriale di massa di scarsa qualità viene trasposto sul simbolo sacro dell’eternità a tal punto da essere un oggetto usa e getta. La spiritualità diventa seriale e temporale dove l’uomo compie un’azione decisiva. La funzione del rosario termina definitivamente quando il fedele sente che la sua coscienza è purificata: la preghiera è una fase di transizione che non lascia tracce.
Abbiamo visto come il gioiello diventi rappresentanza di contesti riservati o circoscritti come quello religioso o regale, e che anche quando assume un valore funzionale, come il binocolo da teatro, la spilla da foulard o il portasigarette, rimane comunque un segno di distinzione. Lo stile ha chiaramente rispecchiato il gusto delle epoche in cui venivano realizzati. Durante la prima metà del ‘900 i regimi si sono espressi con una loro estetica: c’è stata una produzione di gioielli che potessero essere appannaggio solo dei gerarchi fascisti o nazisti e dei capi del partito comunista nell’ex Blocco Comunista? Se sì che ne è stato di queste produzioni e che retaggio estetico hanno lasciato?
e cifra reale,2017
Come accennavo il gioiello è legato al tempo e alla cultura. Chiaramente lo è stato anche per i periodi a cui fa riferimento. In questi gioielli sono principalmente i simboli a dominare la scena: i distintivi sovietici o nazisti dichiaravano in modo letterale e con una sfacciata esibizione di segni del regime l’appartenenza ad una ideologia. Usare gli ornamenti come manifesto è oggi cosa comune. Si pensi agli anelli chevalier utilizzati, di base, per pressare la cera e siglare le lettere, che avevano lo scopo di identificare casati e famiglie nobili, proprio grazie agli stemmi che li contraddistinguevano e che oggi vengono utilizzati per comunicare l’appartenenza, ad esempio, ad un’università prestigiosa, o semplicemente per mettere in mostra le proprie iniziali.
Lei ha scritto un interessantissimo libro sulle corone e i diademi, un viaggio storico fino alla dissacrazione delle proteste simboliche di ispirazione punk o l’omaggio della moda nei confronti della tradizione religiosa come per esempio le proposte di Dolce & Gabbana. La corona è un simbolo legato alla nobiltà, che tutt’al più può essere ridotto a imitazione nell’ambito del gioco della moda: perché il gioiello di stato e di rappresentanza non ha avuto alcuno spazio nell’ambito delle cerimonie pubbliche e nelle forme di governo repubblicane?
Nelle forme di governo repubblicano è intrinseco il concetto di democrazia mentre i gioielli, in particolare le corone a cui fa riferimento, sono stati il simbolo per eccellenza di regalità, hanno scandito la storia dell’umanità e sancito la rigida divisione gerarchica che ha contraddistinto la società, dal Paleolitico alle moderne democrazie. Indossate sulla sommità del capo creano quell’estensione del sé che differenzia l’uno inter pares; spesso sono sormontate da una croce su un globo, per ribadirne la sacrale portata e sancire il suggello di un patto con il popolo garantito dalla provvidenza divina. L’immagine tradizionale della corona è in oro, materiale puro e alchemico, intriso dal luccichio di diamanti, perle e pietre allegoriche colorate, come narrato da Paul Claudel. Eppure le prime corone erano in materiali poveri, se è vero che in epoca preistorica un sottile ramo curvato e ripiegato rappresentò il primo naturale ornamento per il capo, in omaggio al carattere sacro che l’albero rivestiva nelle religioni antiche e alla maestà divina. Di conseguenza, la sua sacralità si trasferì a quei mortali che apparivano collegati con la divinità, ovvero sacerdoti e sovrani, ma anche coloro i quali si trovavano sotto la grazia divina: dai vincitori dei giochi ai valorosi in guerra, dagli sposi delle feste nuziali ai defunti delle cerimonie funebri.
C’è una sala dedicata alla magia, al gioiello simbolo, usato nei rituali religiosi di varie parti del mondo, dall’Africa all’Italia dell’età del ferro, molti reperti trovati nella zona del bellunese. Qui il valore del gioiello dipende da quella che in antropologia viene definita l’agency, cioè il suo potere di creare o modificare situazioni, stati d’animo, come se in quel momento l’oggetto diventasse una porta verso la dimensione del trascendente. Alcuni di quelli trovati in provincia di Belluno sono bracciali in lega di rame con testa di serpente. A quale popolo e cultura sono ascrivibili?
I gioielli che cita sono dei bracciali del IV-V secolo d.C. trovati a Sovramonte ma ciò che sappiamo è che il serpente è molto presente nella gioielleria romana, soprattutto sotto forma di bracciali e anelli. Per i Latini il serpente è agathodaimon, uno spirito benevolo, che protegge la casa e i suoi abitanti e che è dotato dell’abilità di attraversare il labile confine che divide la luce dalle tenebre ed è capace di adattarsi sia alle profondità sotterranee che alla superficie. I bracciali con teste di serpente, presentati a conclusione della dimensione crepuscolare, ci conducono oltre la penombra, accompagnandoci nell’oscurità della notte.
Nella sala delle icone ci sono i micromosaici, il neo-egizio: lavorazioni stupefacenti. Perché avete utilizzato il termine “icona”?
La Sala Icone fa fare al visitatore un salto temporale fino alle radici del gioiello italiano e presenta opere che sono riuscite a valicare il tempo e sopravvivere alle mode. Grazie all’aiuto di Emanuele e Gabriele Pennisi abbiamo scelto pezzi che raccontassero storie, non solo perché testimoniano antiche tecniche che oggi risulterebbe difficile replicare, ma anche perché essi stessi hanno elementi figurativi e quindi narrativi.
Un commento finale: la sala dell’arte contemporanea mi ha molto colpita, il gioiello cinetico, e il bracciale “il vello d’oro”,
Giorgio Facchini, bracciale “Movimenti Cinetici” 1969 Giovanni Corvaja, bracciale “il vello d’oro” 2008
le spille a fili “sbalzati” ( mi perdoni il termine sicuramente improprio) che creano i rilievi tridimensionali; si va molto oltre la moda, sono vere e proprie sculture in miniatura: a grandi linee, qual è la demografia del pubblico che si riconosce in questi gioielli concettuali così straordinari?
Sono coloro che hanno la sensibilità per cogliere l’intensità delle sperimentazioni degli artisti orafi che presentiamo in questa sala. La ricerca materica, tecnica e di linguaggio qui non ha confini ed è fatta per chi non si ferma alla superficie ma ama conoscere e comprendere l’intero processo che porta al risultato finale.
Amburgo: un pomeriggio in musica e storia
Arrivati ad Amburgo, in una piovosa giornata di metà Agosto, una prima definizione che siamo riusciti a trovare per descrivere i fasti e i contrasti di questa affascinante metropoli tedesca, è quella di: “una città moderna, ma non nuova”. E sarà nostro compito, in questo breve articolo, guidarvi non solo verso la comprensione di questa nostra personale chiave di lettura, ma anche in un intrigante itinerario pomeridiano che ci ha portati alla scoperta del panorama artistico, storico e culturale di una città che è stata la dimora di una delle più vivaci scene musicali dell’età moderna.
Sopravvissuta nella sua essenza allo scorrere inesorabile e talvolta nefasto del tempo, come le correnti del fiume Elba che ne hanno forse eroso le rive, o i bombardamenti della seconda guerra mondiale che l’hanno avvolta tra le fiamme, ridotta in cenere e macerie, ma mai scalfita al punto da vedere traviata la propria identità di polo commerciale di grande rilevanza e di capitale di inestimabile valore storico e culturale.
Come una fenice, Amburgo è sempre rinata, ma senza mai lasciarsi alle spalle ciò che è stato di lei o che l’ha resa grande nel tempo. E oggi più che mai lo rivendica con orgoglio, con la stessa tenacia con la quale nei primi anni ’50, la Volkswagen e lo studio DDB di Bernach riuscirono a rompere il muro del pregiudizio verso un progetto tedesco, lanciando l’anacronistico New Beetle nell’agguerrito e nazionalista mercato americano.
Anche in questo caso la Germania si colloca, agli occhi del turista a caccia di storia e cultura, sul podio per quello che concerne la riqualificazione del territorio e la promozione culturale e artistica.
Una città che tanto ammaliò uno dei suoi più illustri cittadini, Johannes Brahms, che perfino durante la sua lunga vita a Vienna ne rimpiangeva i panorami sugli argini e le passeggiate tra le vie natali. L’anti-Wagner che aveva fatto del gusto classicheggiante della società capitalista borghese della Grunderzeit, legata al bisogno di valori certificati da un passato illustre, il cardine compositivo delle sue opere che è ben evidente anche come leif-motiv della pluricentenaria vita amburghese.
Ne è un esempio lampante il “KomponistenQuartier”, fedelmente ricostruito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ad un centinaio di metri dalla elegante stazione liberty di St.Pauli, tra palazzine in mattoni rossi , travi in legno ed eleganti bovindo tinteggiati di bianco.
Qui, affacciato sulla caratteristica Penterstraße, tra il 1971 e il 2016 ha trovato dimora un nuovo complesso di musei: il “Brahms Museum” e l’adiacente museo dedicato ad altri compositori di fama mondiale, ognuno di loro legato indissolubilmente alla scena musicale di Amburgo tra il XVIII e il XIX secolo. Come Georg Philipp Telemann, che definì sagacemente Amburgo come: “la città in cui la musica sembra aver trovato la propria patria”; Carl Philipp Emanuel Bach, meglio conosciuto come: “il Bach di Amburgo”; Johan Adolf Hasse, che cominciò la propria carriera presso la Hamburg Opera House di Gansemarkt; Fanny e Felix Mendelssohn, entrambi nati ad Amburgo e Gustav Mahler, che si trasferì ad Amburgo nel 1891 per ricoprire la carica di Primo Direttore presso l’Hamburg Stadt Theater. Le loro storie e il loro genio raccolto in poche sale, tra partiture originali, libretti e strumenti che permettono di ripercorrere in un avvincente itinerario storico, culturale e artistico la vita di Amburgo “in musica”, dal barocco all’età moderna. Il tutto, in una cornice deliziosamente curata dai numerosi volontari della “Johannes – Brahms – Gesellshaft Internationale Vereiningung e V.”, fondata nel 1969.
E ad Amburgo, per attraversare oltre un secolo di cultura musicale e ritrovarsi lungo gli argini di Baumwall, a pochi metri da una delle più innovative sale concerti al mondo, possono bastare appena tre minuti di tragitto. Come? Lungo il tratto più scenografico della linea U3, la “linea gialla” della metropolitana, che tra St.Pauli, Landungsbruken e Baumwall sfocia in una panoramica sopraelevata sugli argini dell’Elba, oltre i quali potrete ammirare l’imponenza del complesso del Blohm+Voss Shiffswerft, orgoglio della cantieristica e della industria navale tedesca, attivo fin dal 1877.
Ma stavamo parlando, appunto, dell’Elbphilarmonie. Inaugurato nel 2017, con un investimento complessivo di circa 789 milioni di Euro che ha previsto la trasformazione del Kaiserspeicher -il più grande magazzino portuale di Amburgo, costruito nel 1875 e inizialmente adibito al deposito di cacao, tabacco e tè- in una struttura avveniristica: un auditorium unico nel suo genere progettato da Pierre de Meuron, Jacques Herzog e Ascan Mergenthaler. La struttura è inserita nella suggestiva cornice del porto di Amburgo, lungo il fiume Elba. Al suo interno: una Grand Hall da 2.100 posti, una recital hall e una sala da 150 posti specificamente progettata per seminari e workshops curati dal programma di educazione musicale: “World of Instruments”. Ma anche un hotel, un ristorante birreria, una terrazza panoramica e quarantacinque lussuosi appartamenti. Una maestosa struttura in vetro curvato, come un grande cristallo incastonato nella città. Nei suoi 1000 pannelli, non solo sembrano specchiarsi i campanili delle grandi chiese di San Michele e San Pietro, o la vetta in bronzo del grandioso municipio neorinascimentale, ma anche le luci, i colori e i riflessi lungo il torbido corso dell’Elba. Attraverso cui, ancora oggi, navigano lente e solenni grandi navi che con tre fischi lunghi sembrano rendere omaggio a questa, seppur moderna, pietra miliare nel costante processo evolutivo di una grandiosa capitale culturale.
Panta Rhei, diceva Eraclito. Non saranno mai le stesse acque a bagnare le rive di Amburgo, ma resterà ancorata tanto alla memoria quanto al progresso, e non perderà di certo l’occasione di stupirvi.
LOVE – L’arte incontra l’amore al Chiostro del Bramante
Di Roma, Giotto diceva che è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio. Ma se avesse potuto spiare dal buco della serratura del portone del Giardino degli Aranci all’Aventino, da cui si vede il celeberrimo “cupolone” di San Pietro, avrebbe aggiunto che Roma è senz’altro anche la città delle grandi sorprese e dei tesori celati. Come il Chiostro del Bramante che, se viaggiate in coppia e non vi siete ancora innamorati lungo la passeggiata del Pincio che sovrasta i tetti rossi del centro e le fontane di Piazza del Popolo, o se affrontate una visita in solitaria e cercate di innamorarvi a Roma e di Roma come in un film di Fellini, offre fino al 19 Febbraio 2017 una mostra dal titolo che potrebbe guidarvi verso il vostro
obiettivo meglio di una bussola: “Love – l’arte contemporanea incontra l’amore”. Per cominciare, trovate il vostro partner. Potrete sceglierne ben quattro durante la vostra visita alla mostra: David, John -la nostra scelta- Coco ed Amy.
Love, Amor. Quattro lettere, due sculture e due lingue -l’inglese e il latino- con le quali Robert Indiana vi darà il benvenuto in un percorso di analisi e scoperta del sentimento che già tanto guidò artisti del calibro del Bernini -con Amore e Psiche- o della letteratura come Leopardi o Dante Alighieri, nelle sue forme più lontane e distaccate, come l’amore plastico di Tom Wesselmann in “smoker”, l’adorazione a tratti feticista di quelle labbra rosse e quella sigaretta pendente avvolta in una nube di fumo grigio, dagli evidenti richiami ad un’ ideale di sensualità che posa le sue radici nel fascino delle grandi dive come Marlene Dietrich, Anita Ekberg o Ava Gardner e che, per chi lo ricorda, potrà far tornare alla mente i mille accendini pronti ad accendere la sigaretta di “Malena” nel film di Giuseppe Tornatore. Serie di opere che, tra l’altro, ispirò persino i Rolling Stones per la loro cover di Sticky Fingers.
O ancora, l’amore in grado di trascinarci in realtà kafkiane, oltre i limiti della razionalità, come Ragnar Kjartansson -celebre artista islandese- nelle vesti di un crooner americano impegnato a cantare “Sorrow conquers Happiness” accompagnato da una orchestra ad undici nella sala concerti di Vibesk, in Russia.
Marc Quinn con “Kiss”, invece, vi racconterà di come l’amore possa andare oltre la bellezza del corpo e la proporzione delle forme che l’arte classica ci ha insegnato ad apprezzare nonché accettare, mostrandoci un tenero bacio tra due persone affette da sindrome di Dawn. Ma amore anche per l’arte, appunto, ad opera del bresciano Francesco Vezzoli, che in una serie di squisiti confronti -la cui protagonista indiscussa è Eva Mendes, oltre che lo stesso artista ritratto in un busto impegnato a rubare un bacio ad un affascinante e giovane Apollo- ci mostra il narcisismo dell’età moderna che si specchia con la bellezza classica di opere come la nascita di Venere di Ludovisi, il trionfo di Paolina Borghese e l’Estasi di Santa Teresa.
Una giovane madre, ripresa nelle forme austere delle iconografie sacre della Madonna con Bambino, spogliata dalla propria veste sacra e resa umana come mezzo di narrazione per una maternità che va oltre il fattore biologico, è invece l’ideale di amore sul quale Vanessa Beecroft vorrà farvi riflettere, o sulla nascita e la degenerazione del sentimento -per mezzo del linguaggio cinematografico- secondo Tracey Moffett.
“La più desiderata delle donne con il suo carico di amori infelici” è invece la descrizione più azzeccata per una delle reversal series di “One Multicolored Marylin” di Andy Warhol che troverete esposta verso il termine della vostra visita.
Ma infine, prima di scendere i ripidi scalini del chiostro di Santa Maria della Pace, non perdete l’occasione di entrare letteralmente nella maestosa installazione dell’eclettico Yayoi Kusama: “All the Eternal Love I Have for the Pumpkins”, per una foto ricordo in uno stravagante universo di specchi, luci, riflessi e gialle e splendenti zucche maculate.
“LOVE – l’arte contemporanea incontra l’amore” è in mostra al Chiostro del Bramante fino al 19 Febbraio 2017.
Il Chiostro del Bramante si trova in Via Arco della Pace, 5.
IN METROPOLITANA (Linea A)
Fermata SPAGNA: Circa 20 minuti a piedi (1,6 KM)
Fermata BARBERINI: Circa 21 minuti a piedi (1,8 KM)
AUTOBUS:
Da Stazione Termini*:
Autobus 64 fino alla fermata “Corso Vittorio Emanuele – Navona” – Circa 20 minuti
Autobus 70 fino alla fermata “Senato” – circa 20 minuti
Autobus 40 fino alla fermata “Chiesa Nuova” – circa 21 minuti
* I tragitti da altre fermate e gli orari sono disponibili sul sito: http://www.atac.roma.it nella sezione “Linee e Mappe”.
Il Chiostro del Bramante, inoltre, dista meno di 1KM da: Piazza Navona, Pantheon, Palazzo Farnese, Campo de Fiori, Galleria Alberto Sordi e Via del Corso.
San Pietroburgo: La capitale degli zar
C’era una volta Parigi con gli Champs-Élysées illuminati a giorno e le vetrine decorate da fregi dorati e lampade art-decò, gli sfarzi della Reggia di Versailles e l’imponente eleganza di Place de la Concorde, il colonnato corinzio del Tempio di Adriano a Roma e le gallerie commerciali di Piccadilly Circus. Ma poi, affacciata su quel tratto del Mar Baltico che separa l’occidente dalle sconfinate lande a nord dei Balcani e ad est delle grandi capitali centenarie di una allora Europa ancora scossa dalla Guerra di Secessione Spagnola e dalla Grande Guerra del Nord, un moderno Cezar – da questo il nome Zar, per l’appunto- di nome Pietro il Grande decise, nel Maggio del 1703, di deporre la prima pietra sul terreno paludoso dell’isola delle Lepri per dare inizio alla costruzione di una capitale che, con la cooperazione delle più grandi “archi-star” del XVI Secolo- tra cui il ticinese Domenico Trezzini e il napoletano Carlo Rossi- potesse dimostrare a sovrani, ambasciatori e grandi menti dell’epoca dei lumi che una nuova potenza stava per far sentire il proprio ruggito oltre il Danubio dalle acque ghiacciate decantato da Ovidio nel Tristia: l’Impero Russo.
Dalle mura della Fortezza dei Santi Pietro e Paolo, nucleo originario della città, forte di difesa dell’unico sbocco sul Baltico dell’Impero -ex carcere e sede della Cattedrale nella quale sono conservati i resti dell’ultima dinastia imperiale, i Romanov- la ex-capitale si è estesa negli anni oltre le sponde grigie della Neva, oltre le Colonne Ramate e i dieci ponti levatoi che la attraversano–tra i quali il ponte Troitskij, la cui progettazione fu inizialmente affidata a Gustave Eiffel- lungo gli oltre cinque chilometri della Nevskij Prospekt in un impressionante susseguirsi di eleganti negozi e gallerie commerciali, tra le quali la più famosa è senz’altro la Gostiny Dvor costruita nel 1721, l’imponente facciata art-nouveau della storica libreria Dom Knigi, la Cattedrale di Kazan’ costruita da Andrej Voronichin sul modello della Basilica di San Pietro, fino alla Cattedrale di Sant’Isacco e il Palazzo dell’Ammiragliato, le cui vette dorate fendono ancora oggi la nebbia delle prime ore del mattino.
Ma ancora la Porta Trionfale di Mosca, costruita interamente in ghisa, l’incrociatore Aurora saldamente ancorato a pochi passi dall’unica moschea della città nel distretto di Petrogradskij e la scultura dedicata a Lenin di fronte alla Casa dei Soviet che sembra guidare il traffico lungo piazza Maskovaskaja sulla strada per Pushkin, sede della sontuosa reggia di Caterina.
Simboli di due diversi poteri racchiusi in un’unica città, una storia che stride ma che non teme di essere mostrata e raccontata. Ma che, al contrario, va preservata e messa a disposizione di tutti coloro che ci sono, che continueranno ad esserci e a conoscere inesorabilmente quella parte di un patrimonio comune, in quanto parte di una identità nazionale e culturale, che neppure la severità del dominio zarista, le baionette dei bolscevichi o la dissoluzione del regime sono riusciti a ledere.
Come il maestoso complesso di Tsarskoe Celo –il villaggio degli zar- sede del Palazzo di Caterina la Grande ma interamente costruito dalla figlia Elisabetta, conosciuto principalmente per la sua “enfilade dorata” e lo Studio di Ambra, abbandonato dopo la Rivoluzione di Ottobre e conquistato dalle truppe naziste durante l’assedio di Leningrado, razziato, dato alla fiamme durante la fuga e sapientemente restaurato già a partire dagli anni subito successivi al conflitto. Completato solo nel 2003, ad oggi definito come: “uno dei più grandi successi mediatici di Vladimir Putin” o il tesoro dell’Hermitage conservato in oltre trenta chilometri di sale divise in cinque differenti palazzi e che, tra lampadari d’argento, intarsi in madreperla, imponenti colonnati, portoni in ebano, bronzo e guscio di tartaruga e una impressionante copia delle celeberrime Logge di Raffaello, ospita collezioni e pezzi unici come “Bacio di Cupido e Psiche” di Canova, la “Madonna di Benois” di Leonardo da Vinci, il “San Sebastiano” di Perugino e “Ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt, oltre che sculture classiche, vasi e portici in malachite, sarcofagi egizi, papiri e steli acquistate negli anni dagli ambasciatori della famiglia imperiale.
Oppure l’impressionante, seppur esigua, collezione ospitata nell’elegante palazzo Yusupov che vanta, tra l’altro, un grazioso teatro all’italiana, arazzi fiamminghi, pavimenti in legni tropicali e saloni ispirati alle correnti stilistiche in voga nel XVIII secolo, come il neoclassico russo e il barocco italiano. Famosa dimora della aristocratica e poderosa famiglia Yusupov, nota per aver dato i natali al marito della affascinante principessa Irina Aleksandrovna Romanov: Feliks Feliksovic Yusupov. Colui che, nella notte tra il 16 e il 17 Dicembre 1916, partecipò al complotto per
l’omicidio dello stretto consigliere dello zar Nikolaj II: Grigorij Rasputin. Dopo l’omicidio, avvenuto nelle segrete del palazzo, la famiglia riuscì a fuggire verso Londra con il supporto del Re Giorgio V di Inghilterra a bordo della HMS Marlborough, per poi stabilirsi a Parigi a partir dal 1920.
Cultura, storia, arte ma anche gusto e tradizione. La Leningrad Rassolnik del KoKoKo Restaurant, la zuppa di Leningrado a base di carne , patate, cipolle e orzo perlato è ancora un piatto fortemente consigliato insieme alla tipica Kulebyaka di carne di coniglio e il caviale -“l’oro nero della Russia”- che resta insieme al balletto e le ceramiche policrome della Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, il grande orgoglio della Russia. Una serata di buona cucina, musica, balli e costumi tradizionali è invece il piatto forte del celebre Ristorante Katyusha, decorato da pizzi, vassoi in stile tradizionale Zhostovo e divani avvolti da morbidi scialli Pavloposadsky, per brindare con una vodka all’urlo di “Nazdarovja!” e provare una Russish Salad che, vi stupirà sapere, si tratta dell’autentica insalata russa.
LINK UTILI:
Reggia di Caterina a Tsarskoe Celo: http://eng.tzar.ru/
Hermitage Museum: https://www.hermitagemuseum.org/wps/portal/hermitage/
Yusupov Palace: http://www.saint-petersburg.com/palaces/yusupov-palace/
Cococo Restaurant: https://www.kokoko.spb.ru/en/
Katyusha Restaurant: https://en.ginza.ru/spb/restaurant/katyusha
Cruiser Aurora: http://www.saint-petersburg.com/museums/cruiser-aurora/
New York: esserne una parte
Sorvolare l’Atlantico e planare sui tre chilometri e ottocento della pista del John Fitzgerald Kennedy, principale scalo aeroportuale dello stato di New York, ha senz’altro sostituito il fascino del transito sotto il Ponte di Verazzano e della spettacolare navigazione in quel tratto di mare –o di fiume?- stretto tra Governors ed Ellis Island, antico arsenale militare che negli anni della grande emigrazione dal vecchio continente divenne il principale punto di ingresso degli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti. E non sarà neppure il fragore metallico di una passerella del Pier 90 ad accogliervi, ma in una New York che sembra ancorata al suo charme, ai suoi luoghi e alla sua storia che parla ancora di portoni Art-Deco, shopping sulla Fifth Avenue e carrozze lungo il Central Park, la sagoma del “Rex” ritratto da Fellini in Amarcord sembra poter spuntare da un momento all’altro tra la giungla di cemento del Financial District, oltre Battery Park, solcando le severe e scure acque del fiume Hudson.
Perché New York è anche questo, passato e futuro che si incontrano e si amalgamano senza respingersi, in uno straordinario processo di mitosi di culture che convivono in un tratto di terra che si allunga come un lungo braccio di 21,6Km verso l’Europa e che si può vedere e toccare con mano tra i Pub irlandesi a Midtown o assaporare in una tipica pietanza greca all’Estiatorio Milos sulla 55Th St o in una birra e una tagliata di carne alla Peter Luger Steakhouse di Brooklyn.
New York è frenetica, viva, caotica ma ancora curiosa di conoscere e di raccontare storie. Le “People of New York”, che ogni giorno attraversano quel guazzabuglio di cunicoli sottostanti lo snodo della metropolitana di Columbus Circle intenti a rientrare nelle loro abitazioni, spesso lontane da Manhattan, dopo una giornata di lavoro e che, nonostante ignorino il fatto che Colombo fosse italiano e nato a Genova –qualcuno potrà dirvi che era portoghese o comunque from somewhere near Spain– accantonano la diffidenza e il pregiudizio pronti a conoscere o a scambiare opinioni , impressioni o semplicemente due consigli su come vivere al meglio una città che non lascia dubbi sul fatto che possa essere così amata –e rispettata- da coloro che ogni giorno contribuiscono –più o meno consciamente- a mantenere viva nella mente di un visitatore quell’immagine della “città che non dorme mai” che già nel 1924 ispirò Gershwin con la sua “Rhapsody in Blue”, notoriamente ispirata alla realtà metropolitana newyorkese, o Francis Scott Fitzgerald e il suo “Great Gatsby”.
Esserne una parte, come cantavano Frank Sinatra e Liza Minelli, svegliarsi e lasciarsi trascinare da quelle scarpe vagabonde tra i marciapiedi della Midtown Manhattan fino a Bryant Park per un caffè americano e uno sguardo fugace al New York Times che riporta i risultati delle primarie USA per lo stato di New York, che hanno visto il trionfo della candidata democratica Hillary Clinton e del repubblicano Donald Trump, proprietario, tra l’altro, di uno dei più noti edifici affacciati sulla Fifth Avenue, ai piedi del celeberrimo Central Park.
Un hot-dog all’ombra dell’Ago di Cleopatra del XV Secolo a.C , donato da Isma’Il Pascià allo stato di New York e il cui trasporto fino alla sua attuale location fu interamente finanziato dal mecenate William Henry Vanderbilt nel 1881, o una visita alla Frick Collection, ex residenza del magnate dell’acciaio Henry Clay Frick, che ospita tra le sue mura capolavori di artisti del calibro di Tiziano e Piero della Francesca. Perdersi nella vastità del MOMA, lasciarsi abbagliare dalle luci di Times Square o seguire dagli occhi di David Bowie in qualche murales nell’East Village affollato da giacche di pelle, lounge, club e comedy bar.
Come un enorme palcoscenico, contro qualsiasi indicazione e qualsiasi guida, la bravura di un ottimo performer che decide di mettere in scena una visita a New York, resta ancora l’improvvisazione, la fame, la curiosità e la consapevolezza che neppure la vetta della Freedom Tower è il limite per una città che non sarà mai la stessa, visita dopo visita.