PandaRaid 2019: l’emozionante racconto di Michele e Davide del Team 328

La settimana scorsa, siamo volati fino a Marrakech per assistere allo spettacolare arrivo della undicesima edizione del PandaRaid e per intervistare Michele Minetto e Davide Baiardi del Team PandaRaid 328, che abbiamo orgogliosamente rappresentato in qualità di sponsor e che abbiamo seguito attraverso i nostri canali Social fin dalla loro partenza da Genova, il 4 Marzo 2019.

Come siete venuti a conoscenza della gara?

D.B  Da un amico. Lo zio della sua fidanzata aveva fatto la gara l’anno scorso e lo ha rifatto anche quest’anno. Così ci siamo detti che sarebbe stato bello provarlo anche noi.

Da dove nasce l’idea della gara? Chi la organizza, da quanto e se promuovono altre competizioni di questo genere.

M.M: E’ una organizzazione spagnola che da ormai undici anni promuove questa gara attraverso il Marocco, estremamente rodata e ben organizzata. Permette a più di 400 equipaggi, quindi 800 persone, di vivere questa avventura in completa sicurezza…

D.B … Sono molto rodati, allo sbarco c’erano 400 auto e siamo stati scortati dal porto fino al campo ad ogni incrocio dalle forze dell’ordine. Una mobilitazione notevole. 

Quanto è stata difficile la preparazione della gara? Ricerca della macchina, sponsor fino al dover arrivare fisicamente in Marocco?

D.B: Diciamo che eravamo divisi in due ruoli: io mi sono occupato della parte tecnica mentre Michele della parte relativa alle relazioni pubbliche e ricerca degli sponsor e promozione. Difficile non è la parola giusta, perché di difficile non abbiamo fatto nulla, ma il tempo che ci abbiamo dedicato non è stato tantissimo. Se riesci a vederti il fine settimana o comunque una sera alla settimana e magari non hai tutto il materiale a disposizione…  Le cose vanno un pochino per le lunghe anche per le cose più semplici. E’ stato facile, perché non abbiamo fatto nulla di complesso, ma allo stesso tempo molto “tirati” perché non avevamo molto tempo a disposizione. 

M.M: Per quanto riguarda gli sponsor, eravamo completamente nuovi a questo tipo di esperienza, senza un background da poter portare. Bisognava trovare sponsor che, piuttosto che dare contributi in denaro, dessero un altra tipologia di contributi. Picasso Gomme, per esempio, è stato contattato e ci ha fornito le gomme di scorta per la gara.

D.B:  Che poi gli ridaremo di altre forme! – ride.

M.M: Se le terranno da parte come souvenir. GNV per quanto riguarda il viaggio, l’Arte del Ferro per quanto riguarda le protezioni. L’obiettivo è stato trovare qualcuno che facesse come mestiere quello di cui avevamo bisogno. Questo ci è tornato utile perché comunque siamo riusciti a tirasse su un a buona quantità di sponsor che ci hanno permesso di concretizzare il viaggio e ridurre di un po’ le spese che, comunque, sono tante per una impresa del genere.

Quali sono state le tappe della gara?

M.M: I ritrovi per la partenza erano due: Madrid per la partenza ufficiale e Motril per l’imbarco e il trasferimento di tutte le auto alla partenza che è avvenuta a Nador. Successivamente, poco fuori Nador, era stato predisposto un campo base sul Lago Mohamed V.  Successivamente siamo arrivati a Bel Frissate, a 323 km. Una tappa lunga, erano previste 8/9 ore di gara, ma abbastanza facile. Permetteva a tutti gli equipaggi, anche chi non aveva mai provato una esperienza del genere, di avere un primo approccio alla gara in se’. 

D.B: Non c’erano grossi ostacoli, zone sabbiose dove ti impantani o trial dove rischi di “spaccare”. Erano terreni fuori strada di montagna abbastanza fattibili.

M.M: Gli organizzatori hanno pensato ogni tappa come una serie di livelli in cui c’era sempre una serie di difficoltà in più che sfociavano nella quinta e ultima tappa più difficile. 

Dopo Bel Frissate siamo arrivati a Maadid, a 371 km. La tappa più lunga come tempo e nella quale iniziano a esserci i primi test, le prime parti un po’ più difficili per via della sabbia che ha messo alla prova gli equipaggi (soprattutto per i 4×2) in quanto se ti impantanavi bisogna scendere, scavare, tirare fuori la macchina….

D.B: Ma c’è molto supporto tra i team. Quando ci siamo impantanati noi o succedeva agli altri, ci si aiutava a scavare e tirare fuori la macchina. Anche 3/4 auto che si fermavano, attaccavi la cinghia davanti e a braccia 5/6 persone ti tiravano fuori.

Vi chiedo: qual è il pubblico della gara? Sono giovani, coppie, di tutte le eta’?

D.B: Il pubblico spazia veramente. Alla premiazione ci hanno fatto vedere che la più giovane aveva 20 anni il più anziano 74. C’erano coppie, gente che corre abitualmente in machina, chi lo fa per la prima volta, chi lo fa per fare una avventura nel deserto e non gliene frega della gara. La puoi affrontare in tanti modi, è aperto a tante tipologie di persone.

M.M: La cosa bella di questa gara è che te la puoi vivere un po’ come vuoi. Se la vuoi vivere in modo agonistico è difficile, tecnica e quindi hai la possibilità di confrontarti. Per ottenere buoni posti in classifica devi sudartela. Però, è anche vero che non è una Dakar. Se te la vuoi godere entro certi limiti te la puoi prendere comoda e puoi permetterti di vivertela un po’ più da “turista”.

D.B: Ma ciò non toglie che non sia impegnativa, la seconda tappa sono appunto 371 km di cui una buona parte in fuoristrada. Anche se non la vuoi prendere in modo agonistico comunque devi fartela tutta con il rischio di spaccare qualcosa.

M.M: Come aspettativa, almeno dal mio punto di vista, mi aspettavo una cosa più tranquilla, invece è veramente, veramente tosta, soprattutto in alcune parti. Nella terza tappa, per rimanere in ordine, Maadid – Merzouga, era la tappa più corta, 160km, ma forse una delle più stancanti e più difficili. Era quasi totalmente in fuoristrada e con tanta sabbia. Qui abbiamo faticato soprattutto in un punto in cui era previsto l’attraversamento di un fiume in secca di 2km e mezzo e c’è stata una buona ora di gruppi di Panda 4×2 che si tiravano fuori l’un l’altro e cercavano di uscire fuori da questo punto.

D.B: E quella dopo, invece, è stata la tappa più spettacolare (la quattro ndr.). Lì era veramente deserto aperto, ma affrontato a partire dalla montagna. Scenari ampissimi, scene alla Madmax come apertura di paesaggio e secondo me anche uno dei più divertenti. Abbiamo fatto il Tobogan de Arena, lo scivolo di sabbia. Praticamente hanno fatto scendere le auto dalla montagna attraverso lo strapiombo di sabbia. Ti buttavi giù con la Panda e poi affrontavi i km successivi in seconda per non rischiare di rimanere impantananti nella sabbia.

M.M: Mi ricordo che, per arrivarci, abbiamo dovuto affrontare una mulattiera molto difficile e, ad un certo punto, abbiamo visto un elicottero, un mezzo di soccorso dell’organizzazione e una Panda sul ciglio del precipizio. All’inizio abbiamo pensato che ci fossero stati dei problemi, che si fossero “piantati”, ma poi ad un certo punto hanno spinto letteralmente la macchina giù dallo strapiombo…

Ed è il ricordo più bello che vi viene in mente di tutta la gara?

M.M:  Eh, probabilmente sì! Io mi aspettavo più o meno quello che abbiamo fatto, ma quella cosa nello specifico, no. Anche solo per un fattore di pericolosità. Avranno sicuramente verificato più e più volta la fattibilità, ma quando ti butti giù dal ciglio di una montagna… Poi alla fine intanto non si è fatto male nessuno quindi la pericolosità era relativa. 

Come Ormisis parliamo di viaggi e scoperta, secondo voi il PandaRaid è solo auto e competizione o anche possibilità di contatto con culture locali/immersione nell’ambiente? 

D.B: Secondo me, è un 60-40. Sessanta può essere la macchina perché è il mezzo che resta centrale e fondamentale nella gara. Deve sopravvivere 2000 km in una ambiente molto particolare, ma è una esperienza fatta per vivere i posti in cui passi. E’ una esperienza a 360 gradi, passi in paesi e paesaggi che non vedresti mai se non nei documentari, posti poveri che non ti immagineresti, paesaggi che non vedresti… Sul fatto di entrare in contatto con la gente è un po’ più difficile: quando arrivi vieni abbastanza “assalito” perché vieni visto come il “ricco turista” dal quale tirare fuori qualcosa, e l’organizzazione è la prima a richiedere di non dare nulla o cercare comunque di avere meno contatti possibili con loro. Più che altro perché può diventare molto pericoloso per loro, alcuni si buttavano letteralmente in mezzo alla strada. Ci è capitato comunque di  forare una gomma e siamo stati aiutati in tutti i modi dai locali, addirittura un bambino ci ha accompagnati da uno che è riuscito a ripararci la gomma. Hai modo, per altri motivi “esterni alla gara” di poter avere un aiuto dalla gente del posto ed entrare in contatto con loro.

Da casa, seguendovi, abbiamo percepito una grande organizzazione nel PandaRaid: riprese aeree, aggiornamenti social anche dagli angoli più sperduti del deserto, buffet, accampamenti… Come è stata vissuta da voi invece, era davvero tutto così perfetto o avete riscontrato qualche gap? 

D.B: In una scala da 1 a 10 darei 11. E’ veramente tutto calcolato fino al minimo dettaglio. Sanno tutto, non gli scappa nulla e probabilmente è per quello che funziona così bene, perché sono rodati: dal mangiare, la cosa che ti serve, l’assistenza meccanica… Abbiamo spaccato un collettore, il meccanico non lo aveva ma lo ha trovato nella notte telefonando al meccanico del villaggio vicino che gli ha trovato il collettore che loro non avevano… Anche per le cose “extra”, non prettamente organizzative, si adoperano per risolvere qualsiasi problema. 

M.M: Anche il team di meccanici, strettamente necessario in quanto ogni sera quindici/venti macchine avevano problemi meccanico-tecnici ed erano attaccate a questi camion officina. Ci sono i meccanici che dalle 4 del pomeriggio fino alle 10 del mattino del giorno dopo lavorano. E’ veramente difficile non arrivare a Marrakech a meno che non ci sia qualcuno che compra di base un’auto non idonea al percorso, con la pretesa di pensare che cinque giorni di raid equivalgano a 5 giorni di strada normale; va a discapito loro. Ma dal unto di vista dell’assistenza, anche quella medica, hanno un elicottero dedicato per qualsiasi motivo. Da quel punto di vista l’organizzazione è eccezionale. Anche nella comunicazione lavorano molto bene, riescono in tempo reale a fornire immagini, video clip.

Sul sito c’era anche una mappa, in tempo reale, con il tracciatore GPS con la posizione di tutte le auto… 

D.B: E’ una cosa che trasmette molta sicurezza, anche se sei in mezzo al nulla, da solo, sai che sanno perfettamente dove sei e si tratta solo di aspettare che ti accompagnino fino al campo.  Spaccano il secondo, sul roadbook (dove c’erano scritte tutte le informazioni), segnano anche in anticipo dove puoi trovare traffico, pericolo (bambini che escono da scuola, gente in bici). E ‘ una organizzazione a 360 gradi.

 

Chiudo con: la rifareste, la consigliereste e a chi.

D.B: Direi entrambe le cose. La rifarei e la consiglierei bene o male a chiunque non si faccia troppo problemi durante la vacanza. Si tratta comunque di dormire in tenda. Se sei uno che si aspetta un resort non credo faccia per te, ma se vuoi vivere una esperienza intensa vale la pena per chiunque. 

M.M: L’unica cosa richiesta è un po’ di conoscenza pratica. Se non hai una conoscenza tecnica è più difficile. Ci vuole un po’ di preparazione, si tratta di una gara automobilista e devi avere un briciolo di conoscenza…  E’ fattibile per chi ha voglia di “sbattersi”, richiede tempo e soldi ma è veramente unica nel suo genere.

Amburgo: un pomeriggio in musica e storia

Arrivati ad Amburgo, in una piovosa giornata di metà Agosto, una prima definizione che siamo riusciti a trovare per descrivere i fasti e i contrasti di questa affascinante metropoli tedesca, è quella di: “una città moderna, ma non nuova”. E sarà nostro compito, in questo breve articolo, guidarvi non solo verso la comprensione di questa nostra personale chiave di lettura, ma anche in un intrigante itinerario pomeridiano che ci ha portati alla scoperta del panorama artistico, storico e culturale di una città che è stata la dimora di una delle più vivaci scene musicali dell’età moderna.

Sopravvissuta nella sua essenza allo scorrere inesorabile e talvolta nefasto del tempo, come le correnti del fiume Elba che ne hanno forse eroso le rive, o i bombardamenti della seconda guerra mondiale che l’hanno avvolta tra le fiamme, ridotta in cenere e macerie, ma mai scalfita al punto da vedere traviata la propria identità di polo commerciale di grande rilevanza e di  capitale di inestimabile valore storico e culturale.

 

Come una fenice, Amburgo è sempre rinata, ma senza mai lasciarsi alle spalle ciò che è stato di lei o che l’ha resa grande nel tempo.  E oggi più che mai lo rivendica con orgoglio, con la stessa tenacia con la quale nei primi anni ’50, la Volkswagen e lo studio DDB di Bernach riuscirono a rompere il muro del pregiudizio verso un progetto tedesco, lanciando l’anacronistico New Beetle nell’agguerrito e nazionalista mercato americano.

Anche in questo caso la Germania si colloca, agli occhi del turista a caccia di storia e cultura, sul podio per quello che concerne la riqualificazione del territorio e la promozione culturale e artistica.

Una città che tanto ammaliò uno dei suoi più illustri cittadini, Johannes Brahms, che perfino durante la sua lunga vita a Vienna  ne rimpiangeva i panorami sugli argini e le passeggiate tra le vie natali. L’anti-Wagner che aveva fatto del gusto classicheggiante della società capitalista borghese della Grunderzeit,  legata al bisogno di valori certificati da un passato illustre, il cardine compositivo delle sue opere che è ben evidente anche come leif-motiv della pluricentenaria vita amburghese.

Ne è un esempio lampante il “KomponistenQuartier”, fedelmente ricostruito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ad un centinaio di metri dalla elegante stazione liberty di St.Pauli, tra palazzine in mattoni rossi , travi in legno ed eleganti bovindo tinteggiati di bianco.

Qui, affacciato sulla caratteristica Penterstraße, tra il 1971 e il 2016 ha trovato dimora un nuovo complesso di musei:  il “Brahms Museum” e l’adiacente museo dedicato ad altri compositori di fama mondiale, ognuno di loro legato indissolubilmente alla scena musicale di Amburgo tra il XVIII e il XIX secolo. Come Georg Philipp Telemann, che definì sagacemente Amburgo come: “la città in cui la musica sembra aver trovato la propria patria”; Carl Philipp Emanuel Bach, meglio conosciuto come: “il Bach di Amburgo”; Johan Adolf Hasse, che cominciò la propria carriera presso la Hamburg Opera House di Gansemarkt;  Fanny e Felix Mendelssohn, entrambi nati ad Amburgo e  Gustav Mahler, che si trasferì ad Amburgo nel 1891 per ricoprire la carica di Primo Direttore presso l’Hamburg Stadt Theater.  Le loro storie e il loro genio raccolto in poche sale, tra partiture originali, libretti e strumenti che permettono di ripercorrere in un avvincente itinerario storico, culturale e artistico la vita di Amburgo “in musica”, dal barocco all’età moderna.  Il tutto, in una cornice deliziosamente curata dai numerosi volontari della “Johannes – Brahms – Gesellshaft Internationale Vereiningung e V.”, fondata nel 1969.

       

E ad Amburgo,  per attraversare oltre un secolo di cultura musicale e ritrovarsi lungo gli argini di Baumwall, a pochi metri da una delle più innovative sale concerti al mondo,  possono bastare appena tre minuti di tragitto. Come? Lungo il tratto più scenografico della linea U3, la “linea gialla” della metropolitana,  che tra St.Pauli, Landungsbruken e Baumwall sfocia in una panoramica sopraelevata sugli argini dell’Elba, oltre i quali potrete ammirare l’imponenza del complesso del Blohm+Voss Shiffswerft, orgoglio della cantieristica e della industria navale tedesca, attivo fin dal 1877.

 

Ma stavamo parlando, appunto, dell’Elbphilarmonie. Inaugurato nel 2017, con un investimento complessivo di circa 789 milioni di Euro che ha previsto la trasformazione del Kaiserspeicher -il più grande magazzino portuale di Amburgo,  costruito nel 1875 e inizialmente adibito al deposito di cacao, tabacco e tè- in una struttura avveniristica: un auditorium unico nel suo genere progettato da Pierre de Meuron, Jacques Herzog e Ascan Mergenthaler. La struttura è inserita nella suggestiva cornice del porto di Amburgo, lungo il fiume Elba. Al suo interno: una Grand Hall da 2.100 posti, una recital hall e una sala da 150 posti specificamente progettata per seminari e workshops curati dal programma di educazione musicale: “World of Instruments”. Ma anche un hotel, un ristorante birreria, una terrazza panoramica e quarantacinque lussuosi appartamenti.  Una maestosa struttura in vetro curvato, come un grande cristallo incastonato nella città. Nei suoi  1000 pannelli, non solo sembrano specchiarsi i campanili delle grandi chiese di San Michele e San Pietro, o la vetta in bronzo del grandioso municipio neorinascimentale, ma anche le luci, i colori e i riflessi lungo il torbido corso dell’Elba. Attraverso cui, ancora oggi, navigano lente e solenni grandi navi che con tre fischi lunghi sembrano rendere omaggio a questa, seppur moderna, pietra miliare nel costante processo evolutivo di una grandiosa capitale culturale.

         

Panta Rhei, diceva Eraclito. Non saranno mai le stesse acque a bagnare le rive di Amburgo, ma resterà ancorata tanto alla memoria quanto al progresso,  e non perderà di certo l’occasione di stupirvi.

 

San Pietroburgo: La capitale degli zar

 

C’era una volta Parigi con gli Champs-Élysées illuminati a giorno e le vetrine decorate da fregi dorati e lampade art-decò, gli sfarzi della Reggia di Versailles e l’imponente eleganza di Place de la Concorde, il colonnato corinzio del Tempio di Adriano a Roma e le gallerie commerciali di Piccadilly Circus. Ma poi, affacciata su quel tratto del Mar Baltico che separa l’occidente dalle sconfinate lande a nord 0c20df4d-d47b-4860-af06-ce37b636dd86dei Balcani e ad est delle grandi capitali centenarie di una allora Europa ancora scossa dalla Guerra di Secessione Spagnola e dalla Grande Guerra del Nord, un moderno Cezar  – da questo il nome Zar, per l’appunto- di nome Pietro il Grande decise, nel Maggio del 1703, di deporre la prima pietra sul terreno paludoso dell’isola delle Lepri per dare inizio alla costruzione di una capitale che, con la cooperazione delle più grandi “archi-star” del XVI Secolo- tra cui il ticinese Domenico Trezzini e il napoletano Carlo Rossi- potesse dimostrare a sovrani, ambasciatori e grandi menti dell’epoca dei lumi che una nuova potenza stava per far sentire il proprio ruggito oltre il Danubio dalle acque ghiacciate decantato da Ovidio nel Tristia:  l’Impero Russo.img_7986

Dalle mura della Fortezza dei Santi Pietro e Paolo, nucleo originario della città, forte di difesa dell’unico sbocco sul Baltico dell’Impero  -ex carcere e sede della Cattedrale nella quale sono conservati i resti dell’ultima dinastia imperiale, i Romanov-  la ex-capitale si è estesa negli anni oltre le sponde grigie della Neva, oltre le Colonne Ramate e i dieci ponti levatoi che la attraversano–tra i quali il ponte Troitskij, la cui progettazione fu inizialmente affidata a Gustave Eiffel- lungo gli oltre cinque chilometri della Nevskij Prospekt in un impressionante susseguirsi di eleganti negozi e gallerie commerciali, tra le quali la più famosa è seimg_7408nz’altro la  Gostiny Dvor costruita nel 1721,  l’imponente facciata art-nouveau della storica libreria Dom Knigi,  la Cattedrale di Kazan’ costruita da Andrej Voronichin sul modello della Basilica di San Pietro, fino alla Cattedrale di Sant’Isacco e il Palazzo dell’Ammiragliato, le cui vette dorate fendono ancora oggi la nebbia delle prime ore del mattino.img_7409

Ma ancora la Porta Trionfale di Mosca, costruita interamente in ghisa, l’incrociatore Aurora saldamente ancorato a pochi passi dall’unica moschea della città nel distretto di Petrogradskij e la scultura dedicata a Lenin di fronte alla Casa dei Soviet che sembra guidare il traffico lungo piazza Maskovaskaja sulla strada per Pushkin, sede della sontuosa reggia di Caterina.

Simboli di due diversi poteri racchiusi in un’unica città, una storia che stride ma che non teme di essere mostrata e raccontata. Ma che, al contrario, va  preservata e messa a disposizione di tutti coloro che ci sono, che img_8013continueranno ad esserci e a conoscere inesorabilmente quella parte di un patrimonio comune, in quanto parte di una identità nazionale e culturale, che neppure la severità del dominio zarista, le baionette dei bolscevichi o la dissoluzione del regime sono riusciti a ledere.

 

Come il maestoso complesso di Tsarskoe Celo –il villaggio degli zar- sede del Palazzo di Caterina la Grande ma interamente costruito dalla figlia Elisabetta, conosciuto principalmente per la sua “enfilade dorata” e lo Studio di Ambra, 782e6880-7d9a-4f75-a9d5-372e655383b9abbandonato dopo la Rivoluzione di Ottobre e conquistato dalle truppe naziste durante l’assedio di Leningrado, razziato, dato alla fiamme durante la fuga e sapientemente restaurato già a partire dagli anni subito successivi al conflitto. Completato solo nel 2003, ad oggi definito come: “uno dei più grandi successi mediatici di Vladimir Putin” o il tesoro dell’Hermitage conservato in oltre trenta chilometri di sale divise in cinque differenti palazzi e che, tra lampadari d’argento, intarsi in madreperla, imponenti colonnati, portoni in ebano, bronzo e guscio di tartaruga e una impressionante copia delle celeberrime Logge di Raffaello, ospita collezioni e pezzi unici come “Bacio di Cupido e Psiche” di Canova, 6b540308-c603-49d9-bf0b-d2ec4ea20302la “Madonna di Benois” di Leonardo da Vinci, il “San Sebastiano” di Perugino e “Ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt, oltre che sculture classiche, vasi e portici in malachite, sarcofagi egizi, papiri e steli acquistate negli anni dagli ambasciatori della famiglia imperiale.

Oppure l’impressionante, seppur esigua, collezione ospitata nell’elegante palazzo Yusupov che vanta, tra l’altro, un grazioso teatro all’italiana, arazzi fiamminghi, pavimenti in legni tropicali e saloni ispirati alle correnti stilistiche in voga nel XVIII secolo, come il neoclassico russo e il barocco italiano. Famosa 27dea716-37be-47a6-b942-50a0fe31ae99dimora della aristocratica e poderosa famiglia Yusupov, nota per aver dato i natali al marito della affascinante principessa Irina Aleksandrovna Romanov: Feliks Feliksovic Yusupov. Colui che, nella notte tra il 16 e il 17 Dicembre 1916, partecipò al complotto per
l’omicidio dello stretto consigliere dello zar Nikolaj II: Grigorij Rasputin. Dopo l’omicidio, avvenuto nelle segrete del palazzo, la famiglia riuscì a fuggire verso Londra con il supporto del Re Giorgio V di Inghilterra a bordo della  HMS Marlborough, per poi stabilirsi a Parigi a partir dal 1920.

Cultura, storia, arte ma anche gusto e tradizione. La Leningrad Rassolnik del KoKoKo Restaurant, la zuppa di Leningrado a base di carne , patate, cipolle e orzo p6e3f32be-d57a-464d-89d5-c4eaa4f448eeerlato è ancora un piatto fortemente consigliato insieme alla tipica Kulebyaka di carne di coniglio e il caviale -“l’oro nero della Russia”- che resta insieme al balletto e le ceramiche policrome della Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, il grande orgoglio della Russia. Una serata di buona cucina, musica, balli e costumi tradizionali è invece il piatto forte del celebre Ristorante Katyusha, decorato da pizzi, vassoi in stile tradizionale Zhostovo e divani avvolti da morbidi scialli Pavloposadsky, per brindare con una vodka all’urlo di “Nazdarovja!” e provare una Russish Salad che, vi stupirà sapere, si tratta dell’autentica insalata russa.

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LINK UTILI:

Reggia di Caterina a Tsarskoe Celo: http://eng.tzar.ru/

Hermitage Museum: https://www.hermitagemuseum.org/wps/portal/hermitage/

Yusupov Palace: http://www.saint-petersburg.com/palaces/yusupov-palace/

Cococo Restaurant: https://www.kokoko.spb.ru/en/

Katyusha Restaurant: https://en.ginza.ru/spb/restaurant/katyusha

Cruiser Aurora: http://www.saint-petersburg.com/museums/cruiser-aurora/

New York: esserne una parte

Sorvolare l’Atlantico e planare sui tre chilometri e ottocento della pista del John Fitzgerald Kennedy, principale scalo aeroportuale dello stato di New York, ha senz’altro sostituito il fascino del transito sotto il Ponte di Verazzano e della hudsonspettacolare navigazione in quel tratto di mare –o di fiume?- stretto tra Governors ed Ellis Island, antico arsenale militare che negli anni della grande emigrazione dal vecchio continente divenne il principale punto di ingresso degli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti. E non sarà neppure il fragore metallico di una passerella del Pier 90 ad accogliervi, ma in una New York che sembra ancorata al suo charme, ai suoi luoghi e alla sua storia che parla ancora di portoni Art-Deco, shopping sulla Fifth Avenue e carrozze lungo il Central Park, la sagoma del “Rex” ritratto da Fellini in Amarcord sembra poter spuntare da un momento all’altro tra la giungla di cemento del Financial District, oltre Battery Park, solcando le severe e scure acque del fiume Hudson.

Perché New York è anche questo, passato e futuro che si incontrano e si amalgamano senza respingersi, in uno straordinario processo di mitosi di culture che convivono in un tratto di terra che si allunga come un lungo braccio di 21,6Km verso l’Europa e che si può vedere e toccare con mano tra i Pub irlandesi a Midtown o assaporare in una tipica pietanza greca all’Estiatorio Milos sulla 55Th St o in una birra e una tagliata di carne alla Peter Luger Steakhouse di Brooklyn.

timessquareNew York è frenetica, viva, caotica ma ancora curiosa di conoscere e di raccontare storie. Le “People of New York”, che ogni giorno attraversano quel guazzabuglio di cunicoli sottostanti lo snodo della metropolitana di Columbus Circle intenti a rientrare nelle loro abitazioni, spesso lontane da Manhattan, dopo una giornata di lavoro e che, nonostante ignorino il fatto che Colombo fosse italiano e nato a Genova –qualcuno potrà dirvi che era portoghese o comunque from somewhere near Spain– accantonano la diffidenza e il pregiudizio pronti a conoscere o a scambiare opinioni , impressioni o semplicemente due consigli su come vivere al meglio una città che non lascia dubbi sul fatto che possa essere così amata –e rispettata- da coloro che ogni giorno contribuiscono –più o meno consciamente- a mantenere viva nella mente di un visitatore quell’immagine della “città che non dorme mai” che già nel 1924 ispirò Gershwin con la sua “Rhapsody in Blue”, notoriamente ispirata alla realtà metropolitana newyorkese, o Francis Scott Fitzgerald e il suo “Great Gatsby”.

 

Esserne una parte, come cantavano Frank Sinatra e Liza Minelli, svegliarsi e lasciarsibryantpark trascinare da quelle scarpe vagabonde tra i marciapiedi della Midtown Manhattan fino a Bryant Park per un caffè americano e uno sguardo fugace al New York Times che riporta i risultati delle primarie USA per lo stato di New York, che hanno visto il trionfo della candidata democratica Hillary Clinton e del repubblicano Donald Trump, proprietario, tra l’altro, di uno dei più noti edifici affacciati sulla Fifth Avenue, ai piedi del celeberrimo Central Park.

Un hot-dog all’ombra dell’Ago di Cleopatra del XV Secolo a.C , donato d13001108_10207395931069523_8256826844017885993_na Isma’Il Pascià allo stato di New York e il cui trasporto fino alla sua attuale location fu interamente finanziato dal mecenate William Henry Vanderbilt nel 1881, o  una visita alla Frick Collection, ex residenza del magnate dell’acciaio Henry Clay Frick, che ospita tra le sue mura capolavori di artisti del calibro di Tiziano e Piero della Francesca. Perdersi nella vastità del MOMA, lasciarsi abbagliare dalle luci di Times Square o seguire dagli occhi di David Bowie in qualche murales nell’East Village affollato da giacche di pelle, lounge, club e comedy bar.

 

Come un enorme palcoscenico, contro qualsiasi indicazione e qualsiasi guida, la bravura di un ottimo performer che decide di mettere in scena una visita a New York, resta ancora l’improvvisazione, la fame, la curiosità e la consapevolezza che neppure la vetta della Freedom Tower è il limite per una città che non sarà mai la stessa, visita dopo visita.

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Parigi val bene una messa

 La celebre frase di Enrico di Navarra, che nel momento in cui a termine della sanguinosa Guerra dei tre Enrichi del ‘500 dovette connotrevertirsi al cristianesimo per salire sul trono di Francia, è la prima frase che viene in mente quando, al termine degli scalini umidi di pioggia della fermata Saint-Michel del Metro B della capitale francese, ci si ritrova immersi nell’aria gelida e pungente che soffia lungo la Senna sotto il cielo plumbeo di una giornata di fine Novembre e il consueto accalcarsi indistinto di turisti tra la Rue de la Cite’, la Promenade di Quai Saint-Michel e il portale del Giudizio Universale della cathedrale di Francia.

Ma se tra il venditore ambulante di selfie sticks e le ruebiglietterie dei bateau mouche c’è una camionetta della Gendarmerie de France, ad appena otto giorni dagli attentati terroristici del 13 Novembre 2015, i riflessi dell’Ala Denon del Louvre sulla superficie increspata della Senna passano in secondo piano e c’è chi preferisce inquadrare nel proprio obiettivo i giubbotti anti proiettili del gendarme che tanto ricordano quelli già visti nelle riprese della drammatica incursione al Bataclan o alla sede di Charlie Hebdo.

Parigi risponde bene e come sempre la verve combattiva tipicamente francese si distingue nei gesti, nelle parole e nel modo inarc cui a viso scoperto la Ville Lumiere non si fa spegnere nemmeno da 118 morti nel X Arroundisment, a quindici minuti dal Parlamento.  In una sorta di revanchismo del XXI Secolo, la Francia non ringrazia chi le fa forza, glissa le domande in un “è quello che dobbiamo fare” e tutti capiscono le lingue straniere ma nessuno le sa apparentemente parlare.  Come è sempre stato.

I mercati di natale di Place de la Concorde e i negozi degli Champes Elisee restano gremiti di turisti e per qualhe istante tutto sembra attenuarsi tra bancarelle di huitre de Normandie, degustazioni di formaggi, escargot e tovagliette con ricami natalizi. Ma basta una mano sul petto da parte della security di Zara e la richiesta di controllare borse e cappotti a farvi ripiombare in una realtà che maschera la tensione tra le luci e gli sfarzi di una sfavillante capitale centenaria.rue2

Fermate della metro, luoghi di culto –persino la meno nota Eglise de Saint German de Prés – sono controllate agli ingressi da forze dell’ordine in divisa e fucile imbracciato, tra i flash dei turisti e i tavolini dei dehors dei bistrot dove potrete comunque, se all’apparenza vi sentite sicuri di farlo, sorseggiare un vin chaud mentre un senzatetto all’angolo suona con la sua fisarmonica il ritornello di “Sous le Ciel de Paris” di Edith Piaf.

Il Sacre Coeur, il monumento più bianco di Europa insieme al Vittoriano di Roma, continua a svettare e dopo una fredda pioggia di metà autunno sarà sempre più bianco. Le  tre cupole dominano la città dalla collina ai piedi del IX e del X Arroundissment, dove al fondo del Boulevard de Magenta,  acomune Place de la Republique i manifestanti iniziano a scaldarsi all’urlo di “Paris en Marche!”  per l’inizio della “Conferenza Internazionale sul Clima” che terrà Parigi paralizzata per una giornata intera, il 29 Novembre, quando si conteranno 289 fermi e 174 arresti.

Gli attacchi alla capitale del XIX secolo, come fu definita da Walter Benjamin nel 1939, città pioniera della moderna urbanizzazione e del progresso  tecnologico e artistico che l’hanno vista protagonista indiscussa della Belle Epoque, è senz’altro un punto di rottura fino ad ora mai raggiunto all’interno dello spirito occidentalista che ha sempre ritenuto la propria realtà separata da un muro invisibile e intangibile dall’oriente lontano, mistico e dispotico.  Rottura che si realizza –o viene percepita?-  solo al culmine di un processo di progressivo allentamento dei confini territoriali dovuti alle “rotte della speranza”dall’Africa, alla caduta dei regimi dittatoriali nel Maghreb fino all’impoverimento dovuto alle guerre in Siria e Vicino Oriente, verso l’Europa e le ex madrepatrie coloniali.torre

Una presenza che all’apparenza  non spaventa la Francia per la propria natura o per il proprio credo  ma per l’incontrollabilità delle azioni del “califfato” e per l’influenza che queste potrebbero avere per mezzo della propaganda
fondamentalista, anti-occidentale e filo-islamista facendo leva sui caratteri culturali e religiosi intrinsechi non solo delle prime quanto anche delle seconde generazioni di immigrati islamici in Francia.