i DAMMS Art sono un duo di designer, Daniela Arnoldi e Marco Sarzi-Sartori, lei ingegnere, lui architetto. Sono dei celebri esponenti della fiber art, arte fatta con materiale tessile, nel loro caso, materiale riciclato. Costruiscono opere di grandi dimensioni affrontando tematiche differenti, sempre di grande interesse. La loro fiber art è un medium che riescono a utilizzare come strumento già a sè stante per la grande spettacolarità del risultato finale: la figurazione del soggetto risulta così ancora più coinvolgente se non addirittura travolgente per lo spettatore: stupefacenti viste a distanza, le opere dispiegano la loro bellezza anche nei dettagli della lavorazione e permettono di essere esperite anche da molto vicino. il concept è il motore dell'idea ma la realizzazione trasmette l'intenzione attraverso il gesto artigianale minuzioso, pensato esteticamente non solo nel dettaglio ma proprio come un sistema semiotico dotato di sensi distinguibili e inequivocabili nell'insieme ma anche sovrapponibili e reinterpretabili distintamente nelle unità di dimensioni minori. I DAMSS hanno esposto ovunque, in Europa, in Cina, in America e la loro indagine dell'attualità e dell'arte attraverso la materialità interseca varie traiettorie artistiche, come la moda, il design, le installazioni. La tecnica del cucito fa da supporto alla concept art che parte dalla scelta del materiale, stoffa e e fibre di recupero che diventano linguaggio per rappresentare il mondo attuale e la cultura: ecco opere come quella dedicata al cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci, "L'ultima cena DAMSS 500", o il ciclo relativo alle città del futuro, immaginate come potrebbero essere tra 1000 anni. L'ultimo lavoro dei due artisti, "Inferno 3000", di cui abbiamo visto il backstage alla fiera dell'artigianato Abilmente Vicenza e che verrà esposto ad Abilmente Milano a novembre, celebra i 700 anni dalla morte di Dante Alghieri ed è il risultato di una riflessione su cosa potrebbe aver pensato Dante del mondo di oggi, distrutto e inquinato e irreversibilmente modificato. Probabilmente avrebbe collocato i maggiori responsabili nel I Girone del Cerchio VII (cerchio dei violenti, girone dei violenti contro il prossimo e le cose, Canto XII). le opere dei DAMSS possono essere visualizzate nella pagina dedicata del loro sito e sul loro Instagram e l'opera intera "Inferno 3000", un pannello di 12 metri per 4, sarà visibile ad Abilmente Milano dal 4 al 7 novembre 2021. Ulteriori informazioni sull'opera e Abilmente Milano ho incontrato i DAMSS ad Abilmente Vicenza per una breve intervista sulla loro opera
Category: museums arts and exhibitions
i gioielli e noi: preziosità e rappresentazioni in mostra a Vicenza
A Vicenza, situato sotto la Basilica Palladiana in Piazza dei Signori c’è il Museo del Gioiello, il primo in Italia, dove sono conservati manufatti preziosi di qualsiasi epoca, fattura, materiale e finalità.
Generalmente pensiamo ai gioielli come un bene del tutto voluttuario, se non addirittura superfluo, appannaggio di donne appartenenti a ceti elevati, non ci soffermiamo assolutamente a pensare al loro valore storico, alla loro eventuale funzionalità, al messaggio di cui possono essere portatori, insomma del loro valore culturale, dove per cultura intendiamo simboli, pratiche, rappresentazioni, valori condivisi nel luogo e nel tempo da un determinato gruppo sociale.
La mostra “Gioielli Italiani” allestita al Museo del Gioiello di Vicenza è interessantissima perché è un excursus lungo tutte le declinazioni e traduzioni dell’oggetto: sono esposti quelli che intendiamo comunemente come gioielli, cioè oggetti che utilizziamo per abbellirci ma ci sono anche tantissimi altri oggetti definibili “gioielli” e che, seguendo l’idea generica alla quale ci appoggiamo quando pensiamo e ci rappresentiamo nella mente un manufatto appartenente a questa categoria di oggetti, non riconosceremmo mai come gioielli, e in alcuni casi forse avremmo anche delle perplessità.
La mostra è suddivisa per aree tematiche e già con questo tipo di suddivisione possiamo capire che l’oggetto ha un significato modificabile a seconda del contesto e del valore attribuitogli, che non sempre coincide con quello materiale: dicevo, sono esposti gioielli “convenzionali” ( uso questo tipo di etichetta al solo scopo di farmi capire) ma anche oggetti del tutto inaspettati, come collane o bracciali di materiali poveri legati a tradizioni religiose tipiche di altri luoghi ed epoche rispetto alla quella Europea attuale, o anche realizzazioni che sono la materializzazione di concetti complessi che sono il frutto di una riflessione sul sacro nella contemporaneità e della sua relazione con i materiali e con la tutela dell’ambiente.
La mostra mette in risalto l’antico, il sacro, la bellezza, l’ingegno, la ricerca intellettuale, la finezza dell’artigianato in una sorta di paesaggio del gioiello che si svolge e racconta da quelle che sono le roccaforti ideali del gioiello italiano: Arezzo, Torre del Greco, Valenza e appunto Vicenza. Ma è anche un viaggio nel tempo, nella religione, nella sfide dell’arte contemporanea, nella creatività attraverso le sale del Simbolo, della Magia, della Funzione, della Bellezza, dell’Arte, della Moda, del Design, delle Icone e del Futuro
Questa mostra è bellissima ed è per tutti perché parla dell’umanità, del rapporto tra noi e il nostro tempo, il nostro gruppo sociale di riferimento e gli altri, e con tutto ciò che può voler dire “noi” e “loro” , “adesso” e “una volta” e “domani”, “qui” e “là”.
Ho parlato di questi aspetti simbolici con la Professoressa Alba Cappellieri, direttrice del Museo del Gioiello di Vicenza, professore ordinario e presidente del Corso di Laurea in Design della Moda al Politecnico di Milano, docente a Stanford e direttrice del Master in Design del Gioiello al Politecnico di Milano.
Info su orari, biglietti e convenzioni https://www.museodelgioiello.it/it/
La mostra è suddivisa per aree tematiche nelle quali il gioiello viene idealmente collocato, quasi delle aree semantiche in cui il gioiello diventa uno strumento di espressione dei contesti sociali nel tempo. Vediamo manufatti completamente diversi tra loro e in certi casi la preziosità oggettiva è completamente assente. Quindi cosa si intende per “gioiello” esattamente? Perché si può attribuire una qualche forma di preziosità anche ad oggetti in plastica a perdere come il rosario “usa e getta” in pluriball ( dato che, tra l’altro il rosario non si butta e viene generalmente benedetto)?
Alba Cappellieri: Il Museo del Gioiello di Vicenza ha proprio l’obiettivo di far domandare al visitatore cosa è un gioiello oggi: un’espressione di ricchezza o di creatività? Un simbolo di status o di bellezza? Un investimento? Un accessorio? È artigianato, moda, arte o design? La risposta è che non esiste il gioiello universale e assoluto, ma diverse concezioni di gioiello, legate al tempo, alla cultura, al gusto, in sintesi: alla storia dell’uomo.
Al Museo del Gioiello di Vicenza il gioiello viene descritto nella sua complessità ed eterogeneità attraverso nove micro mondi – magia, simbolo, funzione, bellezza, arte, moda, design, icone e futuro – in cui non è il materiale prezioso a determinare cosa sia un gioiello e cosa no. Ecco quindi che un progetto acuto come RosAria di JoeVelluto acquisisce preziosità grazie al valore del progetto. A metà tra il simbolo, il design, il futuro e la funzione, RosAria è un rosario con una croce, realizzato in pluriball (polietilene riciclabile). Quando il fedele sta pregando, fa scorrere il rosario con le dita verso la croce, spingendo giù il modulo d’aria alla fine di ogni preghiera. Il compito è finito quando arriva alla croce e tutte le bolle vengono fatte saltare in aria. Il concetto di prodotto industriale di massa di scarsa qualità viene trasposto sul simbolo sacro dell’eternità a tal punto da essere un oggetto usa e getta. La spiritualità diventa seriale e temporale dove l’uomo compie un’azione decisiva. La funzione del rosario termina definitivamente quando il fedele sente che la sua coscienza è purificata: la preghiera è una fase di transizione che non lascia tracce.
Abbiamo visto come il gioiello diventi rappresentanza di contesti riservati o circoscritti come quello religioso o regale, e che anche quando assume un valore funzionale, come il binocolo da teatro, la spilla da foulard o il portasigarette, rimane comunque un segno di distinzione. Lo stile ha chiaramente rispecchiato il gusto delle epoche in cui venivano realizzati. Durante la prima metà del ‘900 i regimi si sono espressi con una loro estetica: c’è stata una produzione di gioielli che potessero essere appannaggio solo dei gerarchi fascisti o nazisti e dei capi del partito comunista nell’ex Blocco Comunista? Se sì che ne è stato di queste produzioni e che retaggio estetico hanno lasciato?
e cifra reale,2017
Come accennavo il gioiello è legato al tempo e alla cultura. Chiaramente lo è stato anche per i periodi a cui fa riferimento. In questi gioielli sono principalmente i simboli a dominare la scena: i distintivi sovietici o nazisti dichiaravano in modo letterale e con una sfacciata esibizione di segni del regime l’appartenenza ad una ideologia. Usare gli ornamenti come manifesto è oggi cosa comune. Si pensi agli anelli chevalier utilizzati, di base, per pressare la cera e siglare le lettere, che avevano lo scopo di identificare casati e famiglie nobili, proprio grazie agli stemmi che li contraddistinguevano e che oggi vengono utilizzati per comunicare l’appartenenza, ad esempio, ad un’università prestigiosa, o semplicemente per mettere in mostra le proprie iniziali.
Lei ha scritto un interessantissimo libro sulle corone e i diademi, un viaggio storico fino alla dissacrazione delle proteste simboliche di ispirazione punk o l’omaggio della moda nei confronti della tradizione religiosa come per esempio le proposte di Dolce & Gabbana. La corona è un simbolo legato alla nobiltà, che tutt’al più può essere ridotto a imitazione nell’ambito del gioco della moda: perché il gioiello di stato e di rappresentanza non ha avuto alcuno spazio nell’ambito delle cerimonie pubbliche e nelle forme di governo repubblicane?
Nelle forme di governo repubblicano è intrinseco il concetto di democrazia mentre i gioielli, in particolare le corone a cui fa riferimento, sono stati il simbolo per eccellenza di regalità, hanno scandito la storia dell’umanità e sancito la rigida divisione gerarchica che ha contraddistinto la società, dal Paleolitico alle moderne democrazie. Indossate sulla sommità del capo creano quell’estensione del sé che differenzia l’uno inter pares; spesso sono sormontate da una croce su un globo, per ribadirne la sacrale portata e sancire il suggello di un patto con il popolo garantito dalla provvidenza divina. L’immagine tradizionale della corona è in oro, materiale puro e alchemico, intriso dal luccichio di diamanti, perle e pietre allegoriche colorate, come narrato da Paul Claudel. Eppure le prime corone erano in materiali poveri, se è vero che in epoca preistorica un sottile ramo curvato e ripiegato rappresentò il primo naturale ornamento per il capo, in omaggio al carattere sacro che l’albero rivestiva nelle religioni antiche e alla maestà divina. Di conseguenza, la sua sacralità si trasferì a quei mortali che apparivano collegati con la divinità, ovvero sacerdoti e sovrani, ma anche coloro i quali si trovavano sotto la grazia divina: dai vincitori dei giochi ai valorosi in guerra, dagli sposi delle feste nuziali ai defunti delle cerimonie funebri.
C’è una sala dedicata alla magia, al gioiello simbolo, usato nei rituali religiosi di varie parti del mondo, dall’Africa all’Italia dell’età del ferro, molti reperti trovati nella zona del bellunese. Qui il valore del gioiello dipende da quella che in antropologia viene definita l’agency, cioè il suo potere di creare o modificare situazioni, stati d’animo, come se in quel momento l’oggetto diventasse una porta verso la dimensione del trascendente. Alcuni di quelli trovati in provincia di Belluno sono bracciali in lega di rame con testa di serpente. A quale popolo e cultura sono ascrivibili?
I gioielli che cita sono dei bracciali del IV-V secolo d.C. trovati a Sovramonte ma ciò che sappiamo è che il serpente è molto presente nella gioielleria romana, soprattutto sotto forma di bracciali e anelli. Per i Latini il serpente è agathodaimon, uno spirito benevolo, che protegge la casa e i suoi abitanti e che è dotato dell’abilità di attraversare il labile confine che divide la luce dalle tenebre ed è capace di adattarsi sia alle profondità sotterranee che alla superficie. I bracciali con teste di serpente, presentati a conclusione della dimensione crepuscolare, ci conducono oltre la penombra, accompagnandoci nell’oscurità della notte.
Nella sala delle icone ci sono i micromosaici, il neo-egizio: lavorazioni stupefacenti. Perché avete utilizzato il termine “icona”?
La Sala Icone fa fare al visitatore un salto temporale fino alle radici del gioiello italiano e presenta opere che sono riuscite a valicare il tempo e sopravvivere alle mode. Grazie all’aiuto di Emanuele e Gabriele Pennisi abbiamo scelto pezzi che raccontassero storie, non solo perché testimoniano antiche tecniche che oggi risulterebbe difficile replicare, ma anche perché essi stessi hanno elementi figurativi e quindi narrativi.
Un commento finale: la sala dell’arte contemporanea mi ha molto colpita, il gioiello cinetico, e il bracciale “il vello d’oro”,
Giorgio Facchini, bracciale “Movimenti Cinetici” 1969 Giovanni Corvaja, bracciale “il vello d’oro” 2008
le spille a fili “sbalzati” ( mi perdoni il termine sicuramente improprio) che creano i rilievi tridimensionali; si va molto oltre la moda, sono vere e proprie sculture in miniatura: a grandi linee, qual è la demografia del pubblico che si riconosce in questi gioielli concettuali così straordinari?
Sono coloro che hanno la sensibilità per cogliere l’intensità delle sperimentazioni degli artisti orafi che presentiamo in questa sala. La ricerca materica, tecnica e di linguaggio qui non ha confini ed è fatta per chi non si ferma alla superficie ma ama conoscere e comprendere l’intero processo che porta al risultato finale.
Costa Venezia e i segreti delle navi da crociera: intervista allo storico navale Matteo Martinuzzi
In occasione delle recenti celebrazioni per l’arrivo di Costa Venezia e l’innovativa MSC Bellissima, pubblichiamo la nostra intervista a Matteo Martinuzzi, storico navale, collaboratore per Il Secolo XIX, The Medi Telegraph ed esperto di crociere. L’incontro è avvenuto in occasione della nostra visita al MuCa -Museo della Cantieristica e allo stabilimento Fincantieri di Monfalcone, in quella che si è rivelata essere una serie di interessanti visite guidate organizzate dal Comune di Monfalcone in accordo con Fincantieri e il museo stesso, che ha sede al pianterreno dell’ex Albergo operai del Villaggio di Panzano.
UD: Le ultime grandi navi danno l’impressione di ricercare nuovamente un contatto con il mare, ponti esterni più estesi, promenades… E’ solo una impressione o alle spalle c’è effettivamente una scelta commerciale ragionata?
“Diciamo che il prodotto della nave nasce dalla richiesta dell’armatore. L’armatore, che richiede una commessa, fa una “wish list” con le caratteristiche del nave. Quindi, la tendenza a trovare aree esterne deriva da una richiesta dell’armatore, non è una questione di mercato. Deriva soprattutto da dove verrà posizionata la nave e dalle rotte che dovrà fare. La Seaside, per esempio, è una nave che è stata progettata per i climi caldi. La “wish list” che l’armatore fornisce al cantiere costruttore prevede in questo caso una nave per i climi caldi. Però, faccio un esempio: una nave come la Costa Venezia viene concepita con piscine coperte, perché segue le esigenze di una clientela che non ama stare al sole (la clientela cinese ndr.). Quindi non c’è una tendenza fissa secondo la quale le navi del futuro saranno tutte aperte. La Symphony of The Seas è una nave molto chiusa al mare, orientata all’interno, ma resta comunque una nave bellissima. Quindi diciamo che il mercato varia e gli armatori cercano in base al loro brand di offrire ai passeggeri qualcosa di diverso. Ci sono, adesso, in cantiere una serie di navi molto aperte al mare, che vengono dal progetto della Seaside ma non è detto che ci sia questa tendenza generale”.
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UD: A proposito di aspetti più tecnici, abbiamo anche visto che ci sono delle “prue nuove” su alcune navi. Sulla AidaNova o anche sulla Virgin, con una forma più verticale, fendente. C’è una ragione alle spalle? Qualche vantaggio idrodinamico?
Una prua non viene fatta a casaccio, ci sono alle spalle degli studi di carena per migliorare l’efficienza. Diciamo che la prua di tipo verticale, con bulbi non pronunciati, nasce perché la nave è progettata per velocità di esercizio più basse. La tendenza delle navi del futuro, con questo tipo di prua, è che faranno velocità medie più basse e quindi risparmieranno più carburante. Il bulbo, come si intende sulle navi normali, è efficiente solo sopra i 16 nodi. Quindi si può pensare che queste navi navigheranno ad una velocità inferiore. E’ una linea che viene fatta per risparmiare sul carburante e ovviamente le navi faranno degli itinerari differenti rispetto ad altre con velocità superiori di esercizio.
UD: Con Peter Knego avevamo parlato delle differenze di estetica tra i liners di un tempo e le navi di oggi. Quelle di una volta erano progettate da grandi architetti (Renzo Piano e la Crown Princess del 1990), oggi invece sembra che si punti maggiormente ad altri aspetti. E’ vero?
In realtà si punta ancora all’estetica. Fincantieri è molto brava nel ridurre l’effetto “scatola” con espedienti architettonici. Il volume commerciale è un “cubo” per sfruttare al meglio gli spazi; però comunque gli architetti navali di Fincantieri cercano di ridurre questo effetto con alcuni accorgimenti, come i balconi colorati che alleggeriscono la linea della nave. Ed esempio, MSC Seaside ha un lamierino a poppa che fa una leggera curva verso gli ascensori e serve per migliorare l’estetica della nave. Si cerca di migliorare la nave mantenendo la massima efficienza da un punto di vista commerciale ed economico. Non è che non si guardi all’estetica, quando parlavamo di transatlantici era completamente differente, la nave rappresentava il Paese, era un ambasciatore, se ne facevano poche, non erano un prodotto commerciale come le navi da crociera di oggi. Una filosofia completamente nuova. Il transatlantico faceva linea e già in se stesso doveva essere più veloce, doveva avere linee più filanti per essere penetrante nell’acqua. Nella nave di adesso l‘interesse è nello sfruttare gli spazi commerciali.
UD: Il liner era un prodotto unico, un’icona dello stile, un simbolo. La nave di oggi è una serie, un numero quindi…
Per le navi italiane di un tempo venivano fatti dei concorsi, dovevano rappresentare al meglio il Made in Italy. Oggi la nave non rappresenta questo. La nave dal punto di vista architettonico non deve rappresentare un paese ma la sua funzionalità commerciale e la sua capacità di dare il benessere al passeggero di stare in quell’ambiente.
UD: Però, se non ci sono navi che rappresentano più uno “Stato” ci sono navi che devono rappresentare l’immagine di un “brand”. Come le Cunard… Navi ancora costruite con l’intento di anteporre il “bello” al “funzionale”…
Ogni brand ha il suo marchio di fabbrica. Quindi gli allestimenti devono richiamare quel marchio. Cunard ha uno stile classico, legato ancora ai transatlantici. Mortola, lo studio genovese che ha allestito la Queen Victoria e la Queen Elizabeth, ha preso a memoria le navi vittoriane di Cunard e quindi il passeggero che sale su Cunard si aspetta di salire a bordo di una nave che rappresenta uno stile da vecchio transatlantico. Ogni nave, ogni brand ha il suo stile. Sicuramente l’architetto che riceve l’appalto per allestire una nave deve cercare di riproporre al meglio lo stile dell’armatore. Non è più una questione di orgoglio nazionale ma di immagine di brand.
EDD: Parlando di estetica, quanto le esigenze ingegneristiche, anche di sicurezza, possono influenzare una certa estetica o urbanistica della nave che deve sottostare a delle esigenze commerciali? Il ponte dedicato allo shopping: una critica che molto spesso è stata fatta alla Costa, è che tendono a farli ad “imbuto”. Lì fin dove arriva l’ingegneristica, l’esigenza commerciale della nave…?
Allora, per quanto riguarda i cosiddetti “imbuti”, da un punto ingegneristico viene fatto uno studio dei flussi. L’armatore concorda con il cantiere come gestire il passaggio da una parte all’altra della nave. Si può voler far passare i passeggeri davanti ai negozi come no. Non è legato alla sicurezza.
EDD E’ una questione commerciale…
La nave viene comunque costruita secondo la normativa SOLAS che è la bibbia costruttiva delle navi. Quindi non c’è ragione commerciale che ti possa non far seguire questa normativa. La base per partire sono le norme di sicurezza. Una nave di oggi viene costruita con il “safe-return to port”, Compartimentazione stagna, linea tagliafuoco, non si può andare oltre a queste normative. Esempio: la Royal Promenade di Royal Caribbean, un enorme salone disposto in lungo, è diviso in paratie tagliafuoco che si chiudono a ghigliottina. Un passeggero “normale” non nota queste cose. Però anche una nave come RCCL, che è strutturata in spazi enormi, deve essere isolata al fuoco. Queste caratteristiche non si possono saltare per motivi di estetica commerciale. Si cercano di mascherare ad esempio le porte tagliafuoco, sono a scomparsa, sono mimetizzate con il colore della parete, ma in caso di necessità sono pronte ad essere chiuse.
EDD: Dopo il disastro della Concordia, da Vespa vennero ospitati degli ingegneri che spiegarono, con il solito e immancabile plastico, che comunque era un disastro che poteva dare il via a dei nuovi studi di sicurezza degli scafi, che avrebbe influito sulla costruzione, su nuovi criteri costruttivi. Però, a memoria mia, anche la Stockholm tagliò l’Andrea Doria di lato, per cui l’affondamento dovuto allo scafo tagliato di lato non è una novità.
Sulla Concordia sono state dette un sacco di scemenze. Tutto quello che avete sentito in televisione chiudetelo in un cassetto del cervello e abbandonatelo. La Concordia non ha influito per niente sulla regolamentazione della costruzione delle navi. Adesso le navi vengono costruite con il “safe-return to port”: la nave deve essere in grado di rientrare in porto in caso di sinistro con i propri mezzi da 1000 miglia nautiche di distanza. Sono generazioni più avanzate rispetto alla Concordia, ma la “safe-return to port” è entrata in vigore il 1 Luglio 2010, quindi ben prima dell’incidente della Concordia. Le prime navi che sono entrate in servizio con questa normativa sono del 2013 –Royal Princess di Fincantieri-. E’ tomo di 1000 pagine, però prevede una ridondanza completa della nave che le precedenti non avevano.
EDD Cosa vuol dire ridondanza completa della nave?
Impianti sdoppiati, quindi in caso di black out c’è un secondo quadro di emergenza che permette di evitare il black out completo della nave in avaria. Tipo la Costa Allegra, che era rimasta alla deriva al largo delle Seychelles. Ci sono due ponti di comando, quello titolare e quello di backup, così nel caso di un attacco terroristico, incendio ecc… il primo viene evacuato e c’è il secondo di servizio. C’è un’area che si chiama “The Heaven”, che non ha niente a che fare con quello della Norwegian (area VIP ndr.), un’area vicina alle cucine dove ci sono sempre servizi igienici, corrente elettrica e dove si possono servire sia passeggeri che equipaggio. Ma tornando alla Concordia, la nave ha resistito molto più di quello che doveva: da un punto di vista costruttivo ha dato degli ottimi risultati, ha galleggiato molto più del previsto, era stata progettata per galleggiare con due compartimenti stagni allagati e nell’incidente erano quattro, quindi il doppio del danno pre calcolato. Da un punto di vista progettuale ha dato possibilità di galleggiare molto di più, salvare molte più persone. E’ stato un risultato molto positivo che ha mostrato quanto la nave fosse robusta.
UD: Recentemente ho visto un tuo articolo dove parli del ritorno del Mediterraneo come mercato di punta, di una nuova crescita per un mercato che comunque negli ultimi anni è stato in “sofferenza”. E’ una crescita che si registra solo nei grandi porti, già aggregatori di un notevole flusso turistico (Roma, Atene ecc) o anche in scali di nicchia?
Adesso la crescita del Mediterraneo è divisa in due: Mediterraneo occidentale, dove vanno a finire tutte le nuove navi , e il Mediterraneo orientale che è ancora in crisi per i problemi in Turchia, Mar Nero, Tunisia e soprattutto per il problema di Venezia, che era accentratrice del traffico, un porto di riferimento. Non potendo ospitare le “grandi navi” più recenti ed eco-compatibili sta perdendo traffico invece che aumentarlo. Tutta la nuova capacità che viene immessa nel Mediterraneo va nei soliti porti dove si fa il cosiddetto “traghettone” e si riesce a riempirle abbastanza bene a prezzi competitivi.
EDD Quindi i porti italiani del mediterraneo occidentali (Genova-Savona-Napoli-Roma) stanno riscuotendo un successo maggiore.
Sì
UD: Venezia: che cosa ne pensi? Quali potrebbero essere le soluzioni?
Venezia è il tipico scandalo all’italiana: Si sono fatte delle normative per impedire alle navi più moderne eco-compatibili di entrare nella città. Le navi che abbiamo adesso sono quelle più vecchie, meno sicure e che inquinano di più. Non è stato fatto un bene, è stato fatto un male. E portando navi più piccole sono aumentati i transiti lungo la Giudecca. E’ solo una questione estetica, da un punto di vista di sicurezza, le navi corrono in un canale e se la nave esce da questo canale si insabbia e di certo non finisce su un palazzo. Corrono a 6 nodi con cavo voltato, quindi al minimo problema è il rimorchiatore che ferma la nave.
UD: Due rimorchiatori, giusto?
Sì, uno a prua e uno a poppa. Il futuro sarebbe di riadattare il canale Vittorio Emanuele al traffico delle navi da crociere, che è stato attivo fino agli anni 2000. L’ultima nave che è passata è stata la Costa Tropicale che si è insabbiata nel 2001. Quindi, quella è l’unica soluzione, al momento, se non si vuole passare dalla Giudecca. Però purtroppo in Italia non si decide, non si sa quando avverrà questa decisione ma bisogna tenere centrale la Stazione Marittima, è il terminal più bello ed efficiente. Civitavecchia stessa si nasconde a confronto…
UD: Anche se recentemente ne hanno aperto uno nuovo a Civitavecchia?
Certo, Venezia ne ha quattro di terminal nuovi. E come logistica è, credo, il miglior terminal del Mediterraneo. In questo momento sta lavorando sotto capacità, anche con un grosso rischio per l’occupazione. E’ una situazione molto critica.
EDD: Prima, durante la visita nel cantiere, hai parlato delle navi Polar Class. Ci sono altre classi? Quanta versatilità hanno? Una Hurtigruten può navigare esclusivamente in alcuni mari? Quali sono i limiti?
Le Polar Class fanno parte della navi da crociera expeditions. Sono navi più piccole, solitamente sono sotto le 20 mila tonnellate. La tendenza attuale è quella di costruire una nave expeditions con tutte le caratteristiche polar class, in quanto molte sono destinate a navigare in Artico e Antartide. Le caratteristiche differenti di queste navi sono lo spessore delle lamiere e la paratia anti sfondamento a prua, che è stata concepita per poter urtare gli iceberg. Un iceberg potrebbe fendere la lamiera di una nave da crociera normale, ma non di una polar class. Forse il doppio scafo potrebbe diventare una costante anche per le altre navi.
Architecture: Chipperfield Exhibition in Vicenza
Last week I’ve been invited to a press conference with archistar David Chipperfield that will be the protagonist of the next architecture exhibition at Basilica Palladiana in Vicenza. The conference was hosted by Vicenza deputy mayor Jacopo Bulgarini d’Elci and Lorenzo Marchetto, president of association Abacoarchitettura that had already organized previous successful exhibition in Vicenza about Mario Botta, Renzo Piano, Tadao Ando, Alvaro Siza, Toyo Ito and many other archistars. It has been 12 years that an architect exhibition wasn’t set in Vicenza and Chipperfield’s exhibition marks the return of a new sequence of events about architecture in one of the most important towns of the world known for architectural style and tradition due to Palladio works and influence still strong nowadays.
The conference has been very interesting and Chipperfled has said that many times people that get in touch with architecture follow a misunderstanding i.e. we look at architecture as images instead as environments where we have to move and live.
I asked Chipperfiled about this: I am a person that,
as many others, attends to exhibitions and as a journalist of performing arts I have to highlight that architecture, especially in the late XIX and during all the XX century has been very influential toward the other arts and mostly in cinema and dance due to its strength as image. I asked him if, in his opinion, it is still possible that architecture can inspire the performing artist to create unforgettable shows. He answered me that a performance is a moment and that architecture is not a performance, it develops in a long period, that architecture has a different responsibility that can be conveyed in different ways but architects are not artists and they have to be integrated in a social process.
Someone has asked about the set of the exhibition and Chipperfield showed a draft of the set inside the main hall in the Basilica
David Chipperfield’s works are all around the world, from Germany to Japan
The exhibition will be set in Basilica Palladiana, Piazza dei Signori in Vicenza from may 12th 2018 to September 2nd 2018
All the infos about updates and events
http://chipperfield.abacoarchitettura.org
Amburgo: un pomeriggio in musica e storia
Arrivati ad Amburgo, in una piovosa giornata di metà Agosto, una prima definizione che siamo riusciti a trovare per descrivere i fasti e i contrasti di questa affascinante metropoli tedesca, è quella di: “una città moderna, ma non nuova”. E sarà nostro compito, in questo breve articolo, guidarvi non solo verso la comprensione di questa nostra personale chiave di lettura, ma anche in un intrigante itinerario pomeridiano che ci ha portati alla scoperta del panorama artistico, storico e culturale di una città che è stata la dimora di una delle più vivaci scene musicali dell’età moderna.
Sopravvissuta nella sua essenza allo scorrere inesorabile e talvolta nefasto del tempo, come le correnti del fiume Elba che ne hanno forse eroso le rive, o i bombardamenti della seconda guerra mondiale che l’hanno avvolta tra le fiamme, ridotta in cenere e macerie, ma mai scalfita al punto da vedere traviata la propria identità di polo commerciale di grande rilevanza e di capitale di inestimabile valore storico e culturale.
Come una fenice, Amburgo è sempre rinata, ma senza mai lasciarsi alle spalle ciò che è stato di lei o che l’ha resa grande nel tempo. E oggi più che mai lo rivendica con orgoglio, con la stessa tenacia con la quale nei primi anni ’50, la Volkswagen e lo studio DDB di Bernach riuscirono a rompere il muro del pregiudizio verso un progetto tedesco, lanciando l’anacronistico New Beetle nell’agguerrito e nazionalista mercato americano.
Anche in questo caso la Germania si colloca, agli occhi del turista a caccia di storia e cultura, sul podio per quello che concerne la riqualificazione del territorio e la promozione culturale e artistica.
Una città che tanto ammaliò uno dei suoi più illustri cittadini, Johannes Brahms, che perfino durante la sua lunga vita a Vienna ne rimpiangeva i panorami sugli argini e le passeggiate tra le vie natali. L’anti-Wagner che aveva fatto del gusto classicheggiante della società capitalista borghese della Grunderzeit, legata al bisogno di valori certificati da un passato illustre, il cardine compositivo delle sue opere che è ben evidente anche come leif-motiv della pluricentenaria vita amburghese.
Ne è un esempio lampante il “KomponistenQuartier”, fedelmente ricostruito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ad un centinaio di metri dalla elegante stazione liberty di St.Pauli, tra palazzine in mattoni rossi , travi in legno ed eleganti bovindo tinteggiati di bianco.
Qui, affacciato sulla caratteristica Penterstraße, tra il 1971 e il 2016 ha trovato dimora un nuovo complesso di musei: il “Brahms Museum” e l’adiacente museo dedicato ad altri compositori di fama mondiale, ognuno di loro legato indissolubilmente alla scena musicale di Amburgo tra il XVIII e il XIX secolo. Come Georg Philipp Telemann, che definì sagacemente Amburgo come: “la città in cui la musica sembra aver trovato la propria patria”; Carl Philipp Emanuel Bach, meglio conosciuto come: “il Bach di Amburgo”; Johan Adolf Hasse, che cominciò la propria carriera presso la Hamburg Opera House di Gansemarkt; Fanny e Felix Mendelssohn, entrambi nati ad Amburgo e Gustav Mahler, che si trasferì ad Amburgo nel 1891 per ricoprire la carica di Primo Direttore presso l’Hamburg Stadt Theater. Le loro storie e il loro genio raccolto in poche sale, tra partiture originali, libretti e strumenti che permettono di ripercorrere in un avvincente itinerario storico, culturale e artistico la vita di Amburgo “in musica”, dal barocco all’età moderna. Il tutto, in una cornice deliziosamente curata dai numerosi volontari della “Johannes – Brahms – Gesellshaft Internationale Vereiningung e V.”, fondata nel 1969.
E ad Amburgo, per attraversare oltre un secolo di cultura musicale e ritrovarsi lungo gli argini di Baumwall, a pochi metri da una delle più innovative sale concerti al mondo, possono bastare appena tre minuti di tragitto. Come? Lungo il tratto più scenografico della linea U3, la “linea gialla” della metropolitana, che tra St.Pauli, Landungsbruken e Baumwall sfocia in una panoramica sopraelevata sugli argini dell’Elba, oltre i quali potrete ammirare l’imponenza del complesso del Blohm+Voss Shiffswerft, orgoglio della cantieristica e della industria navale tedesca, attivo fin dal 1877.
Ma stavamo parlando, appunto, dell’Elbphilarmonie. Inaugurato nel 2017, con un investimento complessivo di circa 789 milioni di Euro che ha previsto la trasformazione del Kaiserspeicher -il più grande magazzino portuale di Amburgo, costruito nel 1875 e inizialmente adibito al deposito di cacao, tabacco e tè- in una struttura avveniristica: un auditorium unico nel suo genere progettato da Pierre de Meuron, Jacques Herzog e Ascan Mergenthaler. La struttura è inserita nella suggestiva cornice del porto di Amburgo, lungo il fiume Elba. Al suo interno: una Grand Hall da 2.100 posti, una recital hall e una sala da 150 posti specificamente progettata per seminari e workshops curati dal programma di educazione musicale: “World of Instruments”. Ma anche un hotel, un ristorante birreria, una terrazza panoramica e quarantacinque lussuosi appartamenti. Una maestosa struttura in vetro curvato, come un grande cristallo incastonato nella città. Nei suoi 1000 pannelli, non solo sembrano specchiarsi i campanili delle grandi chiese di San Michele e San Pietro, o la vetta in bronzo del grandioso municipio neorinascimentale, ma anche le luci, i colori e i riflessi lungo il torbido corso dell’Elba. Attraverso cui, ancora oggi, navigano lente e solenni grandi navi che con tre fischi lunghi sembrano rendere omaggio a questa, seppur moderna, pietra miliare nel costante processo evolutivo di una grandiosa capitale culturale.
Panta Rhei, diceva Eraclito. Non saranno mai le stesse acque a bagnare le rive di Amburgo, ma resterà ancorata tanto alla memoria quanto al progresso, e non perderà di certo l’occasione di stupirvi.
LOVE – L’arte incontra l’amore al Chiostro del Bramante
Di Roma, Giotto diceva che è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio. Ma se avesse potuto spiare dal buco della serratura del portone del Giardino degli Aranci all’Aventino, da cui si vede il celeberrimo “cupolone” di San Pietro, avrebbe aggiunto che Roma è senz’altro anche la città delle grandi sorprese e dei tesori celati. Come il Chiostro del Bramante che, se viaggiate in coppia e non vi siete ancora innamorati lungo la passeggiata del Pincio che sovrasta i tetti rossi del centro e le fontane di Piazza del Popolo, o se affrontate una visita in solitaria e cercate di innamorarvi a Roma e di Roma come in un film di Fellini, offre fino al 19 Febbraio 2017 una mostra dal titolo che potrebbe guidarvi verso il vostro
obiettivo meglio di una bussola: “Love – l’arte contemporanea incontra l’amore”. Per cominciare, trovate il vostro partner. Potrete sceglierne ben quattro durante la vostra visita alla mostra: David, John -la nostra scelta- Coco ed Amy.
Love, Amor. Quattro lettere, due sculture e due lingue -l’inglese e il latino- con le quali Robert Indiana vi darà il benvenuto in un percorso di analisi e scoperta del sentimento che già tanto guidò artisti del calibro del Bernini -con Amore e Psiche- o della letteratura come Leopardi o Dante Alighieri, nelle sue forme più lontane e distaccate, come l’amore plastico di Tom Wesselmann in “smoker”, l’adorazione a tratti feticista di quelle labbra rosse e quella sigaretta pendente avvolta in una nube di fumo grigio, dagli evidenti richiami ad un’ ideale di sensualità che posa le sue radici nel fascino delle grandi dive come Marlene Dietrich, Anita Ekberg o Ava Gardner e che, per chi lo ricorda, potrà far tornare alla mente i mille accendini pronti ad accendere la sigaretta di “Malena” nel film di Giuseppe Tornatore. Serie di opere che, tra l’altro, ispirò persino i Rolling Stones per la loro cover di Sticky Fingers.
O ancora, l’amore in grado di trascinarci in realtà kafkiane, oltre i limiti della razionalità, come Ragnar Kjartansson -celebre artista islandese- nelle vesti di un crooner americano impegnato a cantare “Sorrow conquers Happiness” accompagnato da una orchestra ad undici nella sala concerti di Vibesk, in Russia.
Marc Quinn con “Kiss”, invece, vi racconterà di come l’amore possa andare oltre la bellezza del corpo e la proporzione delle forme che l’arte classica ci ha insegnato ad apprezzare nonché accettare, mostrandoci un tenero bacio tra due persone affette da sindrome di Dawn. Ma amore anche per l’arte, appunto, ad opera del bresciano Francesco Vezzoli, che in una serie di squisiti confronti -la cui protagonista indiscussa è Eva Mendes, oltre che lo stesso artista ritratto in un busto impegnato a rubare un bacio ad un affascinante e giovane Apollo- ci mostra il narcisismo dell’età moderna che si specchia con la bellezza classica di opere come la nascita di Venere di Ludovisi, il trionfo di Paolina Borghese e l’Estasi di Santa Teresa.
Una giovane madre, ripresa nelle forme austere delle iconografie sacre della Madonna con Bambino, spogliata dalla propria veste sacra e resa umana come mezzo di narrazione per una maternità che va oltre il fattore biologico, è invece l’ideale di amore sul quale Vanessa Beecroft vorrà farvi riflettere, o sulla nascita e la degenerazione del sentimento -per mezzo del linguaggio cinematografico- secondo Tracey Moffett.
“La più desiderata delle donne con il suo carico di amori infelici” è invece la descrizione più azzeccata per una delle reversal series di “One Multicolored Marylin” di Andy Warhol che troverete esposta verso il termine della vostra visita.
Ma infine, prima di scendere i ripidi scalini del chiostro di Santa Maria della Pace, non perdete l’occasione di entrare letteralmente nella maestosa installazione dell’eclettico Yayoi Kusama: “All the Eternal Love I Have for the Pumpkins”, per una foto ricordo in uno stravagante universo di specchi, luci, riflessi e gialle e splendenti zucche maculate.
“LOVE – l’arte contemporanea incontra l’amore” è in mostra al Chiostro del Bramante fino al 19 Febbraio 2017.
Il Chiostro del Bramante si trova in Via Arco della Pace, 5.
IN METROPOLITANA (Linea A)
Fermata SPAGNA: Circa 20 minuti a piedi (1,6 KM)
Fermata BARBERINI: Circa 21 minuti a piedi (1,8 KM)
AUTOBUS:
Da Stazione Termini*:
Autobus 64 fino alla fermata “Corso Vittorio Emanuele – Navona” – Circa 20 minuti
Autobus 70 fino alla fermata “Senato” – circa 20 minuti
Autobus 40 fino alla fermata “Chiesa Nuova” – circa 21 minuti
* I tragitti da altre fermate e gli orari sono disponibili sul sito: http://www.atac.roma.it nella sezione “Linee e Mappe”.
Il Chiostro del Bramante, inoltre, dista meno di 1KM da: Piazza Navona, Pantheon, Palazzo Farnese, Campo de Fiori, Galleria Alberto Sordi e Via del Corso.