i DAMMS Art sono un duo di designer, Daniela Arnoldi e Marco Sarzi-Sartori, lei ingegnere, lui architetto. Sono dei celebri esponenti della fiber art, arte fatta con materiale tessile, nel loro caso, materiale riciclato. Costruiscono opere di grandi dimensioni affrontando tematiche differenti, sempre di grande interesse. La loro fiber art è un medium che riescono a utilizzare come strumento già a sè stante per la grande spettacolarità del risultato finale: la figurazione del soggetto risulta così ancora più coinvolgente se non addirittura travolgente per lo spettatore: stupefacenti viste a distanza, le opere dispiegano la loro bellezza anche nei dettagli della lavorazione e permettono di essere esperite anche da molto vicino. il concept è il motore dell'idea ma la realizzazione trasmette l'intenzione attraverso il gesto artigianale minuzioso, pensato esteticamente non solo nel dettaglio ma proprio come un sistema semiotico dotato di sensi distinguibili e inequivocabili nell'insieme ma anche sovrapponibili e reinterpretabili distintamente nelle unità di dimensioni minori. I DAMSS hanno esposto ovunque, in Europa, in Cina, in America e la loro indagine dell'attualità e dell'arte attraverso la materialità interseca varie traiettorie artistiche, come la moda, il design, le installazioni. La tecnica del cucito fa da supporto alla concept art che parte dalla scelta del materiale, stoffa e e fibre di recupero che diventano linguaggio per rappresentare il mondo attuale e la cultura: ecco opere come quella dedicata al cinquecentenario dalla morte di Leonardo da Vinci, "L'ultima cena DAMSS 500", o il ciclo relativo alle città del futuro, immaginate come potrebbero essere tra 1000 anni. L'ultimo lavoro dei due artisti, "Inferno 3000", di cui abbiamo visto il backstage alla fiera dell'artigianato Abilmente Vicenza e che verrà esposto ad Abilmente Milano a novembre, celebra i 700 anni dalla morte di Dante Alghieri ed è il risultato di una riflessione su cosa potrebbe aver pensato Dante del mondo di oggi, distrutto e inquinato e irreversibilmente modificato. Probabilmente avrebbe collocato i maggiori responsabili nel I Girone del Cerchio VII (cerchio dei violenti, girone dei violenti contro il prossimo e le cose, Canto XII). le opere dei DAMSS possono essere visualizzate nella pagina dedicata del loro sito e sul loro Instagram e l'opera intera "Inferno 3000", un pannello di 12 metri per 4, sarà visibile ad Abilmente Milano dal 4 al 7 novembre 2021. Ulteriori informazioni sull'opera e Abilmente Milano ho incontrato i DAMSS ad Abilmente Vicenza per una breve intervista sulla loro opera
i gioielli e noi: preziosità e rappresentazioni in mostra a Vicenza
A Vicenza, situato sotto la Basilica Palladiana in Piazza dei Signori c’è il Museo del Gioiello, il primo in Italia, dove sono conservati manufatti preziosi di qualsiasi epoca, fattura, materiale e finalità.
Generalmente pensiamo ai gioielli come un bene del tutto voluttuario, se non addirittura superfluo, appannaggio di donne appartenenti a ceti elevati, non ci soffermiamo assolutamente a pensare al loro valore storico, alla loro eventuale funzionalità, al messaggio di cui possono essere portatori, insomma del loro valore culturale, dove per cultura intendiamo simboli, pratiche, rappresentazioni, valori condivisi nel luogo e nel tempo da un determinato gruppo sociale.
La mostra “Gioielli Italiani” allestita al Museo del Gioiello di Vicenza è interessantissima perché è un excursus lungo tutte le declinazioni e traduzioni dell’oggetto: sono esposti quelli che intendiamo comunemente come gioielli, cioè oggetti che utilizziamo per abbellirci ma ci sono anche tantissimi altri oggetti definibili “gioielli” e che, seguendo l’idea generica alla quale ci appoggiamo quando pensiamo e ci rappresentiamo nella mente un manufatto appartenente a questa categoria di oggetti, non riconosceremmo mai come gioielli, e in alcuni casi forse avremmo anche delle perplessità.
La mostra è suddivisa per aree tematiche e già con questo tipo di suddivisione possiamo capire che l’oggetto ha un significato modificabile a seconda del contesto e del valore attribuitogli, che non sempre coincide con quello materiale: dicevo, sono esposti gioielli “convenzionali” ( uso questo tipo di etichetta al solo scopo di farmi capire) ma anche oggetti del tutto inaspettati, come collane o bracciali di materiali poveri legati a tradizioni religiose tipiche di altri luoghi ed epoche rispetto alla quella Europea attuale, o anche realizzazioni che sono la materializzazione di concetti complessi che sono il frutto di una riflessione sul sacro nella contemporaneità e della sua relazione con i materiali e con la tutela dell’ambiente.
La mostra mette in risalto l’antico, il sacro, la bellezza, l’ingegno, la ricerca intellettuale, la finezza dell’artigianato in una sorta di paesaggio del gioiello che si svolge e racconta da quelle che sono le roccaforti ideali del gioiello italiano: Arezzo, Torre del Greco, Valenza e appunto Vicenza. Ma è anche un viaggio nel tempo, nella religione, nella sfide dell’arte contemporanea, nella creatività attraverso le sale del Simbolo, della Magia, della Funzione, della Bellezza, dell’Arte, della Moda, del Design, delle Icone e del Futuro
Questa mostra è bellissima ed è per tutti perché parla dell’umanità, del rapporto tra noi e il nostro tempo, il nostro gruppo sociale di riferimento e gli altri, e con tutto ciò che può voler dire “noi” e “loro” , “adesso” e “una volta” e “domani”, “qui” e “là”.
Ho parlato di questi aspetti simbolici con la Professoressa Alba Cappellieri, direttrice del Museo del Gioiello di Vicenza, professore ordinario e presidente del Corso di Laurea in Design della Moda al Politecnico di Milano, docente a Stanford e direttrice del Master in Design del Gioiello al Politecnico di Milano.
Info su orari, biglietti e convenzioni https://www.museodelgioiello.it/it/
La mostra è suddivisa per aree tematiche nelle quali il gioiello viene idealmente collocato, quasi delle aree semantiche in cui il gioiello diventa uno strumento di espressione dei contesti sociali nel tempo. Vediamo manufatti completamente diversi tra loro e in certi casi la preziosità oggettiva è completamente assente. Quindi cosa si intende per “gioiello” esattamente? Perché si può attribuire una qualche forma di preziosità anche ad oggetti in plastica a perdere come il rosario “usa e getta” in pluriball ( dato che, tra l’altro il rosario non si butta e viene generalmente benedetto)?
Alba Cappellieri: Il Museo del Gioiello di Vicenza ha proprio l’obiettivo di far domandare al visitatore cosa è un gioiello oggi: un’espressione di ricchezza o di creatività? Un simbolo di status o di bellezza? Un investimento? Un accessorio? È artigianato, moda, arte o design? La risposta è che non esiste il gioiello universale e assoluto, ma diverse concezioni di gioiello, legate al tempo, alla cultura, al gusto, in sintesi: alla storia dell’uomo.
Al Museo del Gioiello di Vicenza il gioiello viene descritto nella sua complessità ed eterogeneità attraverso nove micro mondi – magia, simbolo, funzione, bellezza, arte, moda, design, icone e futuro – in cui non è il materiale prezioso a determinare cosa sia un gioiello e cosa no. Ecco quindi che un progetto acuto come RosAria di JoeVelluto acquisisce preziosità grazie al valore del progetto. A metà tra il simbolo, il design, il futuro e la funzione, RosAria è un rosario con una croce, realizzato in pluriball (polietilene riciclabile). Quando il fedele sta pregando, fa scorrere il rosario con le dita verso la croce, spingendo giù il modulo d’aria alla fine di ogni preghiera. Il compito è finito quando arriva alla croce e tutte le bolle vengono fatte saltare in aria. Il concetto di prodotto industriale di massa di scarsa qualità viene trasposto sul simbolo sacro dell’eternità a tal punto da essere un oggetto usa e getta. La spiritualità diventa seriale e temporale dove l’uomo compie un’azione decisiva. La funzione del rosario termina definitivamente quando il fedele sente che la sua coscienza è purificata: la preghiera è una fase di transizione che non lascia tracce.
Abbiamo visto come il gioiello diventi rappresentanza di contesti riservati o circoscritti come quello religioso o regale, e che anche quando assume un valore funzionale, come il binocolo da teatro, la spilla da foulard o il portasigarette, rimane comunque un segno di distinzione. Lo stile ha chiaramente rispecchiato il gusto delle epoche in cui venivano realizzati. Durante la prima metà del ‘900 i regimi si sono espressi con una loro estetica: c’è stata una produzione di gioielli che potessero essere appannaggio solo dei gerarchi fascisti o nazisti e dei capi del partito comunista nell’ex Blocco Comunista? Se sì che ne è stato di queste produzioni e che retaggio estetico hanno lasciato?
e cifra reale,2017
Come accennavo il gioiello è legato al tempo e alla cultura. Chiaramente lo è stato anche per i periodi a cui fa riferimento. In questi gioielli sono principalmente i simboli a dominare la scena: i distintivi sovietici o nazisti dichiaravano in modo letterale e con una sfacciata esibizione di segni del regime l’appartenenza ad una ideologia. Usare gli ornamenti come manifesto è oggi cosa comune. Si pensi agli anelli chevalier utilizzati, di base, per pressare la cera e siglare le lettere, che avevano lo scopo di identificare casati e famiglie nobili, proprio grazie agli stemmi che li contraddistinguevano e che oggi vengono utilizzati per comunicare l’appartenenza, ad esempio, ad un’università prestigiosa, o semplicemente per mettere in mostra le proprie iniziali.
Lei ha scritto un interessantissimo libro sulle corone e i diademi, un viaggio storico fino alla dissacrazione delle proteste simboliche di ispirazione punk o l’omaggio della moda nei confronti della tradizione religiosa come per esempio le proposte di Dolce & Gabbana. La corona è un simbolo legato alla nobiltà, che tutt’al più può essere ridotto a imitazione nell’ambito del gioco della moda: perché il gioiello di stato e di rappresentanza non ha avuto alcuno spazio nell’ambito delle cerimonie pubbliche e nelle forme di governo repubblicane?
Nelle forme di governo repubblicano è intrinseco il concetto di democrazia mentre i gioielli, in particolare le corone a cui fa riferimento, sono stati il simbolo per eccellenza di regalità, hanno scandito la storia dell’umanità e sancito la rigida divisione gerarchica che ha contraddistinto la società, dal Paleolitico alle moderne democrazie. Indossate sulla sommità del capo creano quell’estensione del sé che differenzia l’uno inter pares; spesso sono sormontate da una croce su un globo, per ribadirne la sacrale portata e sancire il suggello di un patto con il popolo garantito dalla provvidenza divina. L’immagine tradizionale della corona è in oro, materiale puro e alchemico, intriso dal luccichio di diamanti, perle e pietre allegoriche colorate, come narrato da Paul Claudel. Eppure le prime corone erano in materiali poveri, se è vero che in epoca preistorica un sottile ramo curvato e ripiegato rappresentò il primo naturale ornamento per il capo, in omaggio al carattere sacro che l’albero rivestiva nelle religioni antiche e alla maestà divina. Di conseguenza, la sua sacralità si trasferì a quei mortali che apparivano collegati con la divinità, ovvero sacerdoti e sovrani, ma anche coloro i quali si trovavano sotto la grazia divina: dai vincitori dei giochi ai valorosi in guerra, dagli sposi delle feste nuziali ai defunti delle cerimonie funebri.
C’è una sala dedicata alla magia, al gioiello simbolo, usato nei rituali religiosi di varie parti del mondo, dall’Africa all’Italia dell’età del ferro, molti reperti trovati nella zona del bellunese. Qui il valore del gioiello dipende da quella che in antropologia viene definita l’agency, cioè il suo potere di creare o modificare situazioni, stati d’animo, come se in quel momento l’oggetto diventasse una porta verso la dimensione del trascendente. Alcuni di quelli trovati in provincia di Belluno sono bracciali in lega di rame con testa di serpente. A quale popolo e cultura sono ascrivibili?
I gioielli che cita sono dei bracciali del IV-V secolo d.C. trovati a Sovramonte ma ciò che sappiamo è che il serpente è molto presente nella gioielleria romana, soprattutto sotto forma di bracciali e anelli. Per i Latini il serpente è agathodaimon, uno spirito benevolo, che protegge la casa e i suoi abitanti e che è dotato dell’abilità di attraversare il labile confine che divide la luce dalle tenebre ed è capace di adattarsi sia alle profondità sotterranee che alla superficie. I bracciali con teste di serpente, presentati a conclusione della dimensione crepuscolare, ci conducono oltre la penombra, accompagnandoci nell’oscurità della notte.
Nella sala delle icone ci sono i micromosaici, il neo-egizio: lavorazioni stupefacenti. Perché avete utilizzato il termine “icona”?
La Sala Icone fa fare al visitatore un salto temporale fino alle radici del gioiello italiano e presenta opere che sono riuscite a valicare il tempo e sopravvivere alle mode. Grazie all’aiuto di Emanuele e Gabriele Pennisi abbiamo scelto pezzi che raccontassero storie, non solo perché testimoniano antiche tecniche che oggi risulterebbe difficile replicare, ma anche perché essi stessi hanno elementi figurativi e quindi narrativi.
Un commento finale: la sala dell’arte contemporanea mi ha molto colpita, il gioiello cinetico, e il bracciale “il vello d’oro”,
Giorgio Facchini, bracciale “Movimenti Cinetici” 1969 Giovanni Corvaja, bracciale “il vello d’oro” 2008
le spille a fili “sbalzati” ( mi perdoni il termine sicuramente improprio) che creano i rilievi tridimensionali; si va molto oltre la moda, sono vere e proprie sculture in miniatura: a grandi linee, qual è la demografia del pubblico che si riconosce in questi gioielli concettuali così straordinari?
Sono coloro che hanno la sensibilità per cogliere l’intensità delle sperimentazioni degli artisti orafi che presentiamo in questa sala. La ricerca materica, tecnica e di linguaggio qui non ha confini ed è fatta per chi non si ferma alla superficie ma ama conoscere e comprendere l’intero processo che porta al risultato finale.
PandaRaid 2019: l’emozionante racconto di Michele e Davide del Team 328
La settimana scorsa, siamo volati fino a Marrakech per assistere allo spettacolare arrivo della undicesima edizione del PandaRaid e per intervistare Michele Minetto e Davide Baiardi del Team PandaRaid 328, che abbiamo orgogliosamente rappresentato in qualità di sponsor e che abbiamo seguito attraverso i nostri canali Social fin dalla loro partenza da Genova, il 4 Marzo 2019.
Come siete venuti a conoscenza della gara?
D.B Da un amico. Lo zio della sua fidanzata aveva fatto la gara l’anno scorso e lo ha rifatto anche quest’anno. Così ci siamo detti che sarebbe stato bello provarlo anche noi.
Da dove nasce l’idea della gara? Chi la organizza, da quanto e se promuovono altre competizioni di questo genere.
M.M: E’ una organizzazione spagnola che da ormai undici anni promuove questa gara attraverso il Marocco, estremamente rodata e ben organizzata. Permette a più di 400 equipaggi, quindi 800 persone, di vivere questa avventura in completa sicurezza…
D.B … Sono molto rodati, allo sbarco c’erano 400 auto e siamo stati scortati dal porto fino al campo ad ogni incrocio dalle forze dell’ordine. Una mobilitazione notevole.
Quanto è stata difficile la preparazione della gara? Ricerca della macchina, sponsor fino al dover arrivare fisicamente in Marocco?
D.B: Diciamo che eravamo divisi in due ruoli: io mi sono occupato della parte tecnica mentre Michele della parte relativa alle relazioni pubbliche e ricerca degli sponsor e promozione. Difficile non è la parola giusta, perché di difficile non abbiamo fatto nulla, ma il tempo che ci abbiamo dedicato non è stato tantissimo. Se riesci a vederti il fine settimana o comunque una sera alla settimana e magari non hai tutto il materiale a disposizione… Le cose vanno un pochino per le lunghe anche per le cose più semplici. E’ stato facile, perché non abbiamo fatto nulla di complesso, ma allo stesso tempo molto “tirati” perché non avevamo molto tempo a disposizione.
M.M: Per quanto riguarda gli sponsor, eravamo completamente nuovi a questo tipo di esperienza, senza un background da poter portare. Bisognava trovare sponsor che, piuttosto che dare contributi in denaro, dessero un altra tipologia di contributi. Picasso Gomme, per esempio, è stato contattato e ci ha fornito le gomme di scorta per la gara.
D.B: Che poi gli ridaremo di altre forme! – ride.
M.M: Se le terranno da parte come souvenir. GNV per quanto riguarda il viaggio, l’Arte del Ferro per quanto riguarda le protezioni. L’obiettivo è stato trovare qualcuno che facesse come mestiere quello di cui avevamo bisogno. Questo ci è tornato utile perché comunque siamo riusciti a tirasse su un a buona quantità di sponsor che ci hanno permesso di concretizzare il viaggio e ridurre di un po’ le spese che, comunque, sono tante per una impresa del genere.
Quali sono state le tappe della gara?
M.M: I ritrovi per la partenza erano due: Madrid per la partenza ufficiale e Motril per l’imbarco e il trasferimento di tutte le auto alla partenza che è avvenuta a Nador. Successivamente, poco fuori Nador, era stato predisposto un campo base sul Lago Mohamed V. Successivamente siamo arrivati a Bel Frissate, a 323 km. Una tappa lunga, erano previste 8/9 ore di gara, ma abbastanza facile. Permetteva a tutti gli equipaggi, anche chi non aveva mai provato una esperienza del genere, di avere un primo approccio alla gara in se’.
D.B: Non c’erano grossi ostacoli, zone sabbiose dove ti impantani o trial dove rischi di “spaccare”. Erano terreni fuori strada di montagna abbastanza fattibili.
M.M: Gli organizzatori hanno pensato ogni tappa come una serie di livelli in cui c’era sempre una serie di difficoltà in più che sfociavano nella quinta e ultima tappa più difficile.
Dopo Bel Frissate siamo arrivati a Maadid, a 371 km. La tappa più lunga come tempo e nella quale iniziano a esserci i primi test, le prime parti un po’ più difficili per via della sabbia che ha messo alla prova gli equipaggi (soprattutto per i 4×2) in quanto se ti impantanavi bisogna scendere, scavare, tirare fuori la macchina….
D.B: Ma c’è molto supporto tra i team. Quando ci siamo impantanati noi o succedeva agli altri, ci si aiutava a scavare e tirare fuori la macchina. Anche 3/4 auto che si fermavano, attaccavi la cinghia davanti e a braccia 5/6 persone ti tiravano fuori.
Vi chiedo: qual è il pubblico della gara? Sono giovani, coppie, di tutte le eta’?
D.B: Il pubblico spazia veramente. Alla premiazione ci hanno fatto vedere che la più giovane aveva 20 anni il più anziano 74. C’erano coppie, gente che corre abitualmente in machina, chi lo fa per la prima volta, chi lo fa per fare una avventura nel deserto e non gliene frega della gara. La puoi affrontare in tanti modi, è aperto a tante tipologie di persone.
M.M: La cosa bella di questa gara è che te la puoi vivere un po’ come vuoi. Se la vuoi vivere in modo agonistico è difficile, tecnica e quindi hai la possibilità di confrontarti. Per ottenere buoni posti in classifica devi sudartela. Però, è anche vero che non è una Dakar. Se te la vuoi godere entro certi limiti te la puoi prendere comoda e puoi permetterti di vivertela un po’ più da “turista”.
D.B: Ma ciò non toglie che non sia impegnativa, la seconda tappa sono appunto 371 km di cui una buona parte in fuoristrada. Anche se non la vuoi prendere in modo agonistico comunque devi fartela tutta con il rischio di spaccare qualcosa.
M.M: Come aspettativa, almeno dal mio punto di vista, mi aspettavo una cosa più tranquilla, invece è veramente, veramente tosta, soprattutto in alcune parti. Nella terza tappa, per rimanere in ordine, Maadid – Merzouga, era la tappa più corta, 160km, ma forse una delle più stancanti e più difficili. Era quasi totalmente in fuoristrada e con tanta sabbia. Qui abbiamo faticato soprattutto in un punto in cui era previsto l’attraversamento di un fiume in secca di 2km e mezzo e c’è stata una buona ora di gruppi di Panda 4×2 che si tiravano fuori l’un l’altro e cercavano di uscire fuori da questo punto.
D.B: E quella dopo, invece, è stata la tappa più spettacolare (la quattro ndr.). Lì era veramente deserto aperto, ma affrontato a partire dalla montagna. Scenari ampissimi, scene alla Madmax come apertura di paesaggio e secondo me anche uno dei più divertenti. Abbiamo fatto il Tobogan de Arena, lo scivolo di sabbia. Praticamente hanno fatto scendere le auto dalla montagna attraverso lo strapiombo di sabbia. Ti buttavi giù con la Panda e poi affrontavi i km successivi in seconda per non rischiare di rimanere impantananti nella sabbia.
M.M: Mi ricordo che, per arrivarci, abbiamo dovuto affrontare una mulattiera molto difficile e, ad un certo punto, abbiamo visto un elicottero, un mezzo di soccorso dell’organizzazione e una Panda sul ciglio del precipizio. All’inizio abbiamo pensato che ci fossero stati dei problemi, che si fossero “piantati”, ma poi ad un certo punto hanno spinto letteralmente la macchina giù dallo strapiombo…
Ed è il ricordo più bello che vi viene in mente di tutta la gara?
M.M: Eh, probabilmente sì! Io mi aspettavo più o meno quello che abbiamo fatto, ma quella cosa nello specifico, no. Anche solo per un fattore di pericolosità. Avranno sicuramente verificato più e più volta la fattibilità, ma quando ti butti giù dal ciglio di una montagna… Poi alla fine intanto non si è fatto male nessuno quindi la pericolosità era relativa.
Come Ormisis parliamo di viaggi e scoperta, secondo voi il PandaRaid è solo auto e competizione o anche possibilità di contatto con culture locali/immersione nell’ambiente?
D.B: Secondo me, è un 60-40. Sessanta può essere la macchina perché è il mezzo che resta centrale e fondamentale nella gara. Deve sopravvivere 2000 km in una ambiente molto particolare, ma è una esperienza fatta per vivere i posti in cui passi. E’ una esperienza a 360 gradi, passi in paesi e paesaggi che non vedresti mai se non nei documentari, posti poveri che non ti immagineresti, paesaggi che non vedresti… Sul fatto di entrare in contatto con la gente è un po’ più difficile: quando arrivi vieni abbastanza “assalito” perché vieni visto come il “ricco turista” dal quale tirare fuori qualcosa, e l’organizzazione è la prima a richiedere di non dare nulla o cercare comunque di avere meno contatti possibili con loro. Più che altro perché può diventare molto pericoloso per loro, alcuni si buttavano letteralmente in mezzo alla strada. Ci è capitato comunque di forare una gomma e siamo stati aiutati in tutti i modi dai locali, addirittura un bambino ci ha accompagnati da uno che è riuscito a ripararci la gomma. Hai modo, per altri motivi “esterni alla gara” di poter avere un aiuto dalla gente del posto ed entrare in contatto con loro.
Da casa, seguendovi, abbiamo percepito una grande organizzazione nel PandaRaid: riprese aeree, aggiornamenti social anche dagli angoli più sperduti del deserto, buffet, accampamenti… Come è stata vissuta da voi invece, era davvero tutto così perfetto o avete riscontrato qualche gap?
D.B: In una scala da 1 a 10 darei 11. E’ veramente tutto calcolato fino al minimo dettaglio. Sanno tutto, non gli scappa nulla e probabilmente è per quello che funziona così bene, perché sono rodati: dal mangiare, la cosa che ti serve, l’assistenza meccanica… Abbiamo spaccato un collettore, il meccanico non lo aveva ma lo ha trovato nella notte telefonando al meccanico del villaggio vicino che gli ha trovato il collettore che loro non avevano… Anche per le cose “extra”, non prettamente organizzative, si adoperano per risolvere qualsiasi problema.
M.M: Anche il team di meccanici, strettamente necessario in quanto ogni sera quindici/venti macchine avevano problemi meccanico-tecnici ed erano attaccate a questi camion officina. Ci sono i meccanici che dalle 4 del pomeriggio fino alle 10 del mattino del giorno dopo lavorano. E’ veramente difficile non arrivare a Marrakech a meno che non ci sia qualcuno che compra di base un’auto non idonea al percorso, con la pretesa di pensare che cinque giorni di raid equivalgano a 5 giorni di strada normale; va a discapito loro. Ma dal unto di vista dell’assistenza, anche quella medica, hanno un elicottero dedicato per qualsiasi motivo. Da quel punto di vista l’organizzazione è eccezionale. Anche nella comunicazione lavorano molto bene, riescono in tempo reale a fornire immagini, video clip.
Sul sito c’era anche una mappa, in tempo reale, con il tracciatore GPS con la posizione di tutte le auto…
D.B: E’ una cosa che trasmette molta sicurezza, anche se sei in mezzo al nulla, da solo, sai che sanno perfettamente dove sei e si tratta solo di aspettare che ti accompagnino fino al campo. Spaccano il secondo, sul roadbook (dove c’erano scritte tutte le informazioni), segnano anche in anticipo dove puoi trovare traffico, pericolo (bambini che escono da scuola, gente in bici). E ‘ una organizzazione a 360 gradi.
Chiudo con: la rifareste, la consigliereste e a chi.
D.B: Direi entrambe le cose. La rifarei e la consiglierei bene o male a chiunque non si faccia troppo problemi durante la vacanza. Si tratta comunque di dormire in tenda. Se sei uno che si aspetta un resort non credo faccia per te, ma se vuoi vivere una esperienza intensa vale la pena per chiunque.
M.M: L’unica cosa richiesta è un po’ di conoscenza pratica. Se non hai una conoscenza tecnica è più difficile. Ci vuole un po’ di preparazione, si tratta di una gara automobilista e devi avere un briciolo di conoscenza… E’ fattibile per chi ha voglia di “sbattersi”, richiede tempo e soldi ma è veramente unica nel suo genere.
Costa Venezia e i segreti delle navi da crociera: intervista allo storico navale Matteo Martinuzzi
In occasione delle recenti celebrazioni per l’arrivo di Costa Venezia e l’innovativa MSC Bellissima, pubblichiamo la nostra intervista a Matteo Martinuzzi, storico navale, collaboratore per Il Secolo XIX, The Medi Telegraph ed esperto di crociere. L’incontro è avvenuto in occasione della nostra visita al MuCa -Museo della Cantieristica e allo stabilimento Fincantieri di Monfalcone, in quella che si è rivelata essere una serie di interessanti visite guidate organizzate dal Comune di Monfalcone in accordo con Fincantieri e il museo stesso, che ha sede al pianterreno dell’ex Albergo operai del Villaggio di Panzano.
UD: Le ultime grandi navi danno l’impressione di ricercare nuovamente un contatto con il mare, ponti esterni più estesi, promenades… E’ solo una impressione o alle spalle c’è effettivamente una scelta commerciale ragionata?
“Diciamo che il prodotto della nave nasce dalla richiesta dell’armatore. L’armatore, che richiede una commessa, fa una “wish list” con le caratteristiche del nave. Quindi, la tendenza a trovare aree esterne deriva da una richiesta dell’armatore, non è una questione di mercato. Deriva soprattutto da dove verrà posizionata la nave e dalle rotte che dovrà fare. La Seaside, per esempio, è una nave che è stata progettata per i climi caldi. La “wish list” che l’armatore fornisce al cantiere costruttore prevede in questo caso una nave per i climi caldi. Però, faccio un esempio: una nave come la Costa Venezia viene concepita con piscine coperte, perché segue le esigenze di una clientela che non ama stare al sole (la clientela cinese ndr.). Quindi non c’è una tendenza fissa secondo la quale le navi del futuro saranno tutte aperte. La Symphony of The Seas è una nave molto chiusa al mare, orientata all’interno, ma resta comunque una nave bellissima. Quindi diciamo che il mercato varia e gli armatori cercano in base al loro brand di offrire ai passeggeri qualcosa di diverso. Ci sono, adesso, in cantiere una serie di navi molto aperte al mare, che vengono dal progetto della Seaside ma non è detto che ci sia questa tendenza generale”.
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UD: A proposito di aspetti più tecnici, abbiamo anche visto che ci sono delle “prue nuove” su alcune navi. Sulla AidaNova o anche sulla Virgin, con una forma più verticale, fendente. C’è una ragione alle spalle? Qualche vantaggio idrodinamico?
Una prua non viene fatta a casaccio, ci sono alle spalle degli studi di carena per migliorare l’efficienza. Diciamo che la prua di tipo verticale, con bulbi non pronunciati, nasce perché la nave è progettata per velocità di esercizio più basse. La tendenza delle navi del futuro, con questo tipo di prua, è che faranno velocità medie più basse e quindi risparmieranno più carburante. Il bulbo, come si intende sulle navi normali, è efficiente solo sopra i 16 nodi. Quindi si può pensare che queste navi navigheranno ad una velocità inferiore. E’ una linea che viene fatta per risparmiare sul carburante e ovviamente le navi faranno degli itinerari differenti rispetto ad altre con velocità superiori di esercizio.
UD: Con Peter Knego avevamo parlato delle differenze di estetica tra i liners di un tempo e le navi di oggi. Quelle di una volta erano progettate da grandi architetti (Renzo Piano e la Crown Princess del 1990), oggi invece sembra che si punti maggiormente ad altri aspetti. E’ vero?
In realtà si punta ancora all’estetica. Fincantieri è molto brava nel ridurre l’effetto “scatola” con espedienti architettonici. Il volume commerciale è un “cubo” per sfruttare al meglio gli spazi; però comunque gli architetti navali di Fincantieri cercano di ridurre questo effetto con alcuni accorgimenti, come i balconi colorati che alleggeriscono la linea della nave. Ed esempio, MSC Seaside ha un lamierino a poppa che fa una leggera curva verso gli ascensori e serve per migliorare l’estetica della nave. Si cerca di migliorare la nave mantenendo la massima efficienza da un punto di vista commerciale ed economico. Non è che non si guardi all’estetica, quando parlavamo di transatlantici era completamente differente, la nave rappresentava il Paese, era un ambasciatore, se ne facevano poche, non erano un prodotto commerciale come le navi da crociera di oggi. Una filosofia completamente nuova. Il transatlantico faceva linea e già in se stesso doveva essere più veloce, doveva avere linee più filanti per essere penetrante nell’acqua. Nella nave di adesso l‘interesse è nello sfruttare gli spazi commerciali.
UD: Il liner era un prodotto unico, un’icona dello stile, un simbolo. La nave di oggi è una serie, un numero quindi…
Per le navi italiane di un tempo venivano fatti dei concorsi, dovevano rappresentare al meglio il Made in Italy. Oggi la nave non rappresenta questo. La nave dal punto di vista architettonico non deve rappresentare un paese ma la sua funzionalità commerciale e la sua capacità di dare il benessere al passeggero di stare in quell’ambiente.
UD: Però, se non ci sono navi che rappresentano più uno “Stato” ci sono navi che devono rappresentare l’immagine di un “brand”. Come le Cunard… Navi ancora costruite con l’intento di anteporre il “bello” al “funzionale”…
Ogni brand ha il suo marchio di fabbrica. Quindi gli allestimenti devono richiamare quel marchio. Cunard ha uno stile classico, legato ancora ai transatlantici. Mortola, lo studio genovese che ha allestito la Queen Victoria e la Queen Elizabeth, ha preso a memoria le navi vittoriane di Cunard e quindi il passeggero che sale su Cunard si aspetta di salire a bordo di una nave che rappresenta uno stile da vecchio transatlantico. Ogni nave, ogni brand ha il suo stile. Sicuramente l’architetto che riceve l’appalto per allestire una nave deve cercare di riproporre al meglio lo stile dell’armatore. Non è più una questione di orgoglio nazionale ma di immagine di brand.
EDD: Parlando di estetica, quanto le esigenze ingegneristiche, anche di sicurezza, possono influenzare una certa estetica o urbanistica della nave che deve sottostare a delle esigenze commerciali? Il ponte dedicato allo shopping: una critica che molto spesso è stata fatta alla Costa, è che tendono a farli ad “imbuto”. Lì fin dove arriva l’ingegneristica, l’esigenza commerciale della nave…?
Allora, per quanto riguarda i cosiddetti “imbuti”, da un punto ingegneristico viene fatto uno studio dei flussi. L’armatore concorda con il cantiere come gestire il passaggio da una parte all’altra della nave. Si può voler far passare i passeggeri davanti ai negozi come no. Non è legato alla sicurezza.
EDD E’ una questione commerciale…
La nave viene comunque costruita secondo la normativa SOLAS che è la bibbia costruttiva delle navi. Quindi non c’è ragione commerciale che ti possa non far seguire questa normativa. La base per partire sono le norme di sicurezza. Una nave di oggi viene costruita con il “safe-return to port”, Compartimentazione stagna, linea tagliafuoco, non si può andare oltre a queste normative. Esempio: la Royal Promenade di Royal Caribbean, un enorme salone disposto in lungo, è diviso in paratie tagliafuoco che si chiudono a ghigliottina. Un passeggero “normale” non nota queste cose. Però anche una nave come RCCL, che è strutturata in spazi enormi, deve essere isolata al fuoco. Queste caratteristiche non si possono saltare per motivi di estetica commerciale. Si cercano di mascherare ad esempio le porte tagliafuoco, sono a scomparsa, sono mimetizzate con il colore della parete, ma in caso di necessità sono pronte ad essere chiuse.
EDD: Dopo il disastro della Concordia, da Vespa vennero ospitati degli ingegneri che spiegarono, con il solito e immancabile plastico, che comunque era un disastro che poteva dare il via a dei nuovi studi di sicurezza degli scafi, che avrebbe influito sulla costruzione, su nuovi criteri costruttivi. Però, a memoria mia, anche la Stockholm tagliò l’Andrea Doria di lato, per cui l’affondamento dovuto allo scafo tagliato di lato non è una novità.
Sulla Concordia sono state dette un sacco di scemenze. Tutto quello che avete sentito in televisione chiudetelo in un cassetto del cervello e abbandonatelo. La Concordia non ha influito per niente sulla regolamentazione della costruzione delle navi. Adesso le navi vengono costruite con il “safe-return to port”: la nave deve essere in grado di rientrare in porto in caso di sinistro con i propri mezzi da 1000 miglia nautiche di distanza. Sono generazioni più avanzate rispetto alla Concordia, ma la “safe-return to port” è entrata in vigore il 1 Luglio 2010, quindi ben prima dell’incidente della Concordia. Le prime navi che sono entrate in servizio con questa normativa sono del 2013 –Royal Princess di Fincantieri-. E’ tomo di 1000 pagine, però prevede una ridondanza completa della nave che le precedenti non avevano.
EDD Cosa vuol dire ridondanza completa della nave?
Impianti sdoppiati, quindi in caso di black out c’è un secondo quadro di emergenza che permette di evitare il black out completo della nave in avaria. Tipo la Costa Allegra, che era rimasta alla deriva al largo delle Seychelles. Ci sono due ponti di comando, quello titolare e quello di backup, così nel caso di un attacco terroristico, incendio ecc… il primo viene evacuato e c’è il secondo di servizio. C’è un’area che si chiama “The Heaven”, che non ha niente a che fare con quello della Norwegian (area VIP ndr.), un’area vicina alle cucine dove ci sono sempre servizi igienici, corrente elettrica e dove si possono servire sia passeggeri che equipaggio. Ma tornando alla Concordia, la nave ha resistito molto più di quello che doveva: da un punto di vista costruttivo ha dato degli ottimi risultati, ha galleggiato molto più del previsto, era stata progettata per galleggiare con due compartimenti stagni allagati e nell’incidente erano quattro, quindi il doppio del danno pre calcolato. Da un punto di vista progettuale ha dato possibilità di galleggiare molto di più, salvare molte più persone. E’ stato un risultato molto positivo che ha mostrato quanto la nave fosse robusta.
UD: Recentemente ho visto un tuo articolo dove parli del ritorno del Mediterraneo come mercato di punta, di una nuova crescita per un mercato che comunque negli ultimi anni è stato in “sofferenza”. E’ una crescita che si registra solo nei grandi porti, già aggregatori di un notevole flusso turistico (Roma, Atene ecc) o anche in scali di nicchia?
Adesso la crescita del Mediterraneo è divisa in due: Mediterraneo occidentale, dove vanno a finire tutte le nuove navi , e il Mediterraneo orientale che è ancora in crisi per i problemi in Turchia, Mar Nero, Tunisia e soprattutto per il problema di Venezia, che era accentratrice del traffico, un porto di riferimento. Non potendo ospitare le “grandi navi” più recenti ed eco-compatibili sta perdendo traffico invece che aumentarlo. Tutta la nuova capacità che viene immessa nel Mediterraneo va nei soliti porti dove si fa il cosiddetto “traghettone” e si riesce a riempirle abbastanza bene a prezzi competitivi.
EDD Quindi i porti italiani del mediterraneo occidentali (Genova-Savona-Napoli-Roma) stanno riscuotendo un successo maggiore.
Sì
UD: Venezia: che cosa ne pensi? Quali potrebbero essere le soluzioni?
Venezia è il tipico scandalo all’italiana: Si sono fatte delle normative per impedire alle navi più moderne eco-compatibili di entrare nella città. Le navi che abbiamo adesso sono quelle più vecchie, meno sicure e che inquinano di più. Non è stato fatto un bene, è stato fatto un male. E portando navi più piccole sono aumentati i transiti lungo la Giudecca. E’ solo una questione estetica, da un punto di vista di sicurezza, le navi corrono in un canale e se la nave esce da questo canale si insabbia e di certo non finisce su un palazzo. Corrono a 6 nodi con cavo voltato, quindi al minimo problema è il rimorchiatore che ferma la nave.
UD: Due rimorchiatori, giusto?
Sì, uno a prua e uno a poppa. Il futuro sarebbe di riadattare il canale Vittorio Emanuele al traffico delle navi da crociere, che è stato attivo fino agli anni 2000. L’ultima nave che è passata è stata la Costa Tropicale che si è insabbiata nel 2001. Quindi, quella è l’unica soluzione, al momento, se non si vuole passare dalla Giudecca. Però purtroppo in Italia non si decide, non si sa quando avverrà questa decisione ma bisogna tenere centrale la Stazione Marittima, è il terminal più bello ed efficiente. Civitavecchia stessa si nasconde a confronto…
UD: Anche se recentemente ne hanno aperto uno nuovo a Civitavecchia?
Certo, Venezia ne ha quattro di terminal nuovi. E come logistica è, credo, il miglior terminal del Mediterraneo. In questo momento sta lavorando sotto capacità, anche con un grosso rischio per l’occupazione. E’ una situazione molto critica.
EDD: Prima, durante la visita nel cantiere, hai parlato delle navi Polar Class. Ci sono altre classi? Quanta versatilità hanno? Una Hurtigruten può navigare esclusivamente in alcuni mari? Quali sono i limiti?
Le Polar Class fanno parte della navi da crociera expeditions. Sono navi più piccole, solitamente sono sotto le 20 mila tonnellate. La tendenza attuale è quella di costruire una nave expeditions con tutte le caratteristiche polar class, in quanto molte sono destinate a navigare in Artico e Antartide. Le caratteristiche differenti di queste navi sono lo spessore delle lamiere e la paratia anti sfondamento a prua, che è stata concepita per poter urtare gli iceberg. Un iceberg potrebbe fendere la lamiera di una nave da crociera normale, ma non di una polar class. Forse il doppio scafo potrebbe diventare una costante anche per le altre navi.
Ocean liners and cruise ships: interview with historian Peter Knego
On June 8th 2018, I had the pleasure to meet Mr. Peter Knego, the world-renowed ocean liner historian and cruise journalist who has come to Genova to join the MSC Seaview christening and inaugural events. His fame among cruise and ships amateurs is linked to his several trips to Alang -the world’s biggest scrapping yard, in India- to witness the dismantling of many important liners and save furnishings, panels and artworks from destruction. Part of these items are also offered for sale on his website: MidShipCentury.com . His collection has been featured in “The New York Times”, the “Daily News” and “Los Angeles Magazine”. His travels also led to the production of a series of projects: “On the Road to Alang” and “The Sands of Alang” which are also available on his website.
Your passion for maritime history and cruises started in 1973, when you were assigned for a research about the Lusitania. What was the aspect of that story that made you fall in love with maritime matters?
I couldn’t believe that a ship with four funnels sank by the bow only three years after the Titanic. I only knew about the Titanic with four funnles, I didn’t know that there were other ships like that. And I thought that I was very interesting and see about what other ships there were. There was the Mauretania, the Acquitania, the german liners with four funnels. That was very interesting! There were more ships than I couldn’t imagined, and they were so beautiful with their architectures and lavish interiors. And that was shortly after Maxtone Graham’s book “The Only Way to Cross” was published that is a beautifully written book and anybody, just the average person, would read that and think ocean liners were magnificent creations. So that, and also the movie: “The Poseidon Adventure”. All at the same time made me think ships were fantastic and need to know more, collect brochures and get any book -and there weren’t many books back then- . So I would have to go to the library and try to find prints and magazines, doing researches on the ships… Then I started visiting them in 1974, and that’s when I absolutely fell in love. My first ship was an old british liner: the Arcadia for P&O Lines. A 1954, beautiful wood work, linoleum decking, edge class panels. I was hooked, and that’s when I thought that I had to visit any ship coming to Los Angeles from that moment. I was too young to drive, so my mother or my father had to drive me down, and I would spend my day photographing the ships.
Old liners were conceived as symbols of the best of style, elegance and manufacturing of a nation. Italian liners were designed by great architects and artists such as the Coppedè brothers, Ducrot Studio, Nino Zoncada, Gustavo Pulitzer, Gio Ponti and so on. Why nowadays cruise ships are no more projected by famous architects?
Well, for me ships are now designed by corporate boardrooms. They are designed by company officials who are trying to figure out how to make more money by putting as many people on a ship, and generating revenue with distractions. Surf boards rides, zip-lines and anything to make people want to be on a ship but at the same time they forget that they’re at sea. So, for me is a different thing all together. The old ocean liners, as you said, were meant to be inspirational. The architects, I remember my friend Maurizio (Eliseo, editor’s note) told me that here in Italy, when they were designing the Eugenio C, they were arguing for days and days about the curved superstructures of the ship. They had to make beauty before function. Beauty and function is the ultimate, but sometimes you give up a little function for that beauty, so that when people saw the Eugenio C sailing by, they would say that it was a magnificent ship and they would love to sail on her. Not a big giant floating carnival park full of distractions. These new ships are a all different thing. And people today, sadly, at least where I’m from, they don’t care so much if the ship looks beautiful. They want fifteen different specialty restaurants, they want the SPA, they want balconies, they want all these amenities and it makes sense! This is why they go on a cruise, they want these things. So today it is nice to look at those old ships in books but we rather have a big new ship.
In your website, MidshipCentury.com , you sell out furnitures, artworks and panels that you litteraly saved from destruction during your numerous travels to Alang, and many of them came from ships that made the history of the Italian maritime history: the Ausonia, EugenioCosta or the Augustus…
… Yes, the most beautiful one! It was heartbreaking because I went to the Philippines in 2000. I spent a week walking the decks of the Augustus, going through the rooms and seeing all the beautiful furnitures, light fixtures and some of the art works were still there onboard. She was so magnificent and so well preserved. You know, you could go in the cabins and still find Italian Line’s daily programs that were left over from the 70s because nobody touched the ship. She was just kept in immaculate conditions all those years. Then, they opened it as a hotel but she didn’t do so well because nobody wanted to travel to the Philippines. She just sat there and they used her for functions like Miss Universe contests and thing like that, but they didn’t make her an actual functioning hotel. So finally, when the owner was too old, he no longer wanted to keep her. She was like his toy, and that’s when my heart broke, when he sold her for scrap. I thought that of all the ocean liners in the world, she was the one. She needed to come back to Genova and to be right there, on Molo Vecchio (Mr.Knego points the Molo Vecchio while talking, editor’s note). But instead, they wanted the yacht harbour, the fancy yachts. So the plan didn’t happen and she went to Alang. I went to see all the other ships and they all broke my heart, but the Augustus, for me, was the biggest tragedy. To think that she was there, perfectly intact, but they would cut this beautiful sculpture of a ship into pieces and melt her down. So I made sure that I rescued everything I could. I got furnitures, some of the light fixtures which are now in the Victoria & Albert Museum on display, I have a beautiful panel by Marangoni (Tranquillo Marangoni ndr.), a magnificent wooden panel called “The Green House” (“La serra” in italian, editor’s note). And for some reasons “Italia” didn’t remove it when they sold the ship! Crazy! So now it’s in my house and everyday I walk by pieces of Augustus. I have one of her in tables from the suites in my bedroom, under a panel by Luzzati from Eugenio C stair tower. Then I have another painting by Luzzati from Stella Maris of a circean calypso. He did all panels depicting greek mythology on the Sun Lines ships, just magnificent! And I come here and of course the Museo Luzzati it’s so nice to have, but they have nothing. Only just the drawings that he did in the very end of its life for children. They’re beautiful but nothing compared to what he did for the ocean liners. So I live in a world of Luzzati, Paolucci, Marangoni…
… It’s a beautful world!
It is a beautiful world! The italians made the most beautiful ships as far as the art works were concerned, light fixtures, furnitures… Magnificent. The british made the most beautiful ships with the wood work in the edge class panels. So I have a combination of the best british and italian… And maybe a little french ships here and there or a couple of other, but the italian ships steal my heart.
Are there many people who are interested in these items? Who are they? Collectors? Museums or also people who are interested in the design but not about the story of the ships and so on…
That’s it, what you just said there! The interior designers love the italian furniture. If it’s Pulitzer, maybe they like it. But if it’s Ponti, oh my gosh! You know, a Ponti chair, they can sell it for twenty thousand dollars because they say: “Gio Ponti? It doesn’t matter what it looks like, it’s Gio Ponti!”. Zoncada? Exact same thing, he made the same furniture with Cassina for Ponti. Zoncada designed and Ponti signed off one of it and said: “Yes, I like that chair, go with it”. But if I say it’s a Zoncada they go: “That’s nice”. But if it’s mid-century italian they’re very interested, because in the States, right now, that’s very popular. But the ship history? No, not so much. If you say Augustus they answer that they don’t know the ship. Andrea Doria? Yes they know off course, but there’s nothing to save from the Andrea Doria that hasn’t been very damaged. With Augustus, there were some light fixtures by Artoluce in Trieste. Those lights are very very valuable as well. I didn’t know when I purchased them, I just thought they were beautiful and I would save them. I sold many of the things but now, with Augustus, everything that I have, I keep. Because when I’m gone in thirty years? Hopefully fourty, hopefully better? I want these things all to be kept together. I hope the world would be ready for it. I was very happy to see in Galata (Galata Museo del Mare, Genova, editor’s note) the Andrea Doria exhibit. And it was crowded! People were there, they were enjoying it! Maybe ocean liners will make a comeback in people’s minds and they will think: “Okay, what happened to all these ships? Isn’t it nice that some of them still survived?”. Let’s make a museum, just ocean liners, furnitures, art works, fittings. Show the pictures of their glory, show them at the scrapyard because it’s also a very fascinating procedure in India. To see Augustus on the beach, her entire hull out of water. This magnificent creation. Not in a drydock, not at a pier, but fully exposed on a natural beach was, to me, the most beautiful thing and at the same time very sad, because it was just for a very short period of time before they started demolishing her. But, to see the pictures, and I believe you had, to see her looking so magnificent, powerful…
..Right, it was so sad. Heartbreaking.
Yeah, well the scrapping pictures expecially. Terrible! But, what can you do? Nobody could save her. At least, when they scrap the ships in Alang, they have the market. Where people like me can buy things and save them. So that’s the one good thing: at least part of Augustus survived today.
And which was your most memorable trip to Alang? Maybe when there was a particular ship…
When Aureol… A british ocean liner which is almost as beautiful as Augustus. A 1951, hundred percent intact also because she was bought by the Greek billionaire John Latsis. He saved her, he loved british liners and used her as an accomodation ship in the middle east. Never changed, never updated. So when she went for scrap, that’s when I thought that I had to start buying things. I was afraid to go to India, I didn’t have any contact, I didn’t know what it was like there. I am mad at myself because you know, they say that In life it’s not the things that you do that you regret, it’s the things you don’t do. And I wish I went for Aureol. She was also there with the Principe Perfeito, which was a portuguese liner –british built- also very beautiful. So I bought things from those ships and when they came to my home I said: “Next time an important ship goes, since I have made a contact in India that is going to help me, I’m going”. So there were nine or ten ships, all at once: the Empress of Canada, the Transvaal Castle, the Stella Solaris which was filled with Luzzati, Stella Oceanis also with Luzzati… And when all those ships were there I thought: “This is it, I’m going!”. And I wish I spent more time there. I booked two weeks, I took a week off and went to Delhi and the Taj Mahal, because everyone wants to see those things, but they will be there forever! And I wish I had that extra week in Alang because there were so many more things that I could have done, seen and documented. But that was the trip and then I decided after that, once I have made my friend there, and he took good care of me and snuck me into the yards and he understood my passion and fell in love with the ships himself, that’s when I said: “Next time another important old liner goes to India, I’m going”. And that next ships was Eugenio C… And then Windor Castle. Both were there at the same time. So I made that second trip and so on. Everytime, expecially the italian liners. The Lloyd Triestino’s Victoria, which was Anastasis in her last. Again, another ship one hundred percent intact! Just as designed, because she was a christian missionary ship, so nobody updated her with, you know, new condominium type of staterooms. So she was also beautiful and I got many things from her as well. And then Ausonia…
… Oh the Ausonia! What a beautiful ship!
Yes, I sailed on her both as Ausonia and Ivory. And we went on her as Winner 5 when she was on the beach in Alang. The tides came and they were very rough, so they said that we had to spend the night onboard. She was abandoned and it was very sad and very… wet! But it was a magnificent experience because I had all the time I wanted to go wander to the officer’s quarter, and find the builders plan, logbooks and all of the things that I never would have been able to see because usually, when you go on a ship, they rush you and get you off. So that was lovely, I spent one last night on Ausonia in the suite that I sailed in on the ship when she was still sailing with Louis. Althought it was a little more dirty and sticky! But she was a lovely, lovely ship!
You are also a cruise journalist: in your experience, how an european ship is perceived by the average US passenger?
Good question! There are two types of US passengers: there are the ones who want to stay in the US and are afraid of anything that is not american. They want american food, american service, american movies, everything has to be in english. They take Carnival, Royal Caribbean, Norwegian. They stay in the Caribbean, they do Alaska… Somebody who comes here and sail on an MSC: they are expecting a european experience. They like to travel with different people, different cultures, different languages, eat different food. Those are the types of americans that I like. Because they understand the world and didn’t think that the world revolves around America. And those people are much more fun to be with than the typical american passenger. So I would never come to Europe and sail on Disney, or NCL or Carnival. Not that they’re bad, they’re fine, they’re very good product. But I would much rather experience a european product when I’m travelling in Europe. Greek ships in Greece, italian ships in the Mediterranean.
Regional products and regional experiences!
Yes, exactly!!
Here in Europe, many cruisers are interested in the cultural aspect of the travel. In the American market, is there a similar interest on these aspects while cruising in the American areas?
Yes, there are the smaller ships. The expedition type ships. There’s a company called UnCruise in Seattle, they have 50-60 passengers on their ships, and they go to Alaska. Those people love getting on a Zodiak and riding into the ice fields of a glacier or taking a hike on a trail looking for bears. That type of things, getting very into the experience. When the people on the Carnival or NCL ships are going to Alaska, they’re going to Juneau and Ketchikan, and they’re going to giant shopping malls, and if they have a lot of money maybe they fly over a glacier. But they are not touching and feeling and experiencing the place that plus. So there’s a big difference. But there are ships, and there are americans, I should say, there’s a wide variety of americans fortunately. And there are certain ships: Oceania, Viking and Azamara. Those cruise lines cater to a more cultured type of passenger. They want to eat good food, they want to have good enrichment lectures and they want to go on excursions where they can actually learn and experience. So it’s not just about going to the rum bar and having an extra drink or two. Or doing a wet t-shirt contest… It’s an all different kind of passenger! So there are some lines that cater to the people who want culture, and lines who cater to the people want to party. There’s something for everybody in America.
Small ships are leaving the fleets of many major cruise companies. Here in Italy those who started cruising on more “traditional” ships are also pretty reluctant about traveling aboard 5/6000 passengers ships. So, what will be the future of small ships?
Well, it’s funny because I was with a fellow journalist who was on the Seaview and she was telling me about her experience on an old ship. And I said: “What ship was that?” and she said: “Oh it was the Norwegian Gem”. Like, that’s not an old ship! She was like: “Oh she’s so small, and doesn’t have any attractions”. And I’m like: “Ok, ok, but it’s a new ship! It’s got this special ship inside of a ship, it’s got the balconies, a nice spa… And she was like: “No no no, I work with travel agencies and we consider that an old ship”. And I’m like: “Well, I’m getting very old than, because that’s not an old ship to me”. But that is the way people are thinking. You know, there is a race car riding on the new NCL ship and everybody’s coming up with some new “crazy but fun” thing. Like on the Seaview, she got a lot of things: she got a zip-line and an incredible waterpark. I think those other ships that are smaller ships but too big to me, they are ok for now because there are some markets in the US where they fit perfectly. Short cruises to the Bahamas -Carnival is using their old eight Fantasy Class ships to do those- or cruises to Mexico from Los Angeles. So, as long as there are small markets like that, the small to medium size ships have a home. Now Cuba has opened up, and you can’t get the big ships to Havana, and that’s the biggest port in Cuba. So some of the ships like the old Empress by Royal Caribbean has now come back into the fleet, and she’s popular because she’s perfect for that itinerary. So as long as there are certain itineraries like that, it’s good. I think those ships will be in big trouble if another bad incident happens. A highjacking , a terrorist thing or some disasters like the Concordia, those are the first ships to go. They will have troubles in being filled if the market get damaged, but the market it’s very healthy right now.
CREDIT PHOTOS: The New York Times archive, Simplonpc.co.uk , Maritime Matters, MidShipCentury.com , Adriatica.altervista.org , CelestyalCruises.com , UN Cruises.com and Norwegian Cruise Lines.com
Architecture: Chipperfield Exhibition in Vicenza
Last week I’ve been invited to a press conference with archistar David Chipperfield that will be the protagonist of the next architecture exhibition at Basilica Palladiana in Vicenza. The conference was hosted by Vicenza deputy mayor Jacopo Bulgarini d’Elci and Lorenzo Marchetto, president of association Abacoarchitettura that had already organized previous successful exhibition in Vicenza about Mario Botta, Renzo Piano, Tadao Ando, Alvaro Siza, Toyo Ito and many other archistars. It has been 12 years that an architect exhibition wasn’t set in Vicenza and Chipperfield’s exhibition marks the return of a new sequence of events about architecture in one of the most important towns of the world known for architectural style and tradition due to Palladio works and influence still strong nowadays.
The conference has been very interesting and Chipperfled has said that many times people that get in touch with architecture follow a misunderstanding i.e. we look at architecture as images instead as environments where we have to move and live.
I asked Chipperfiled about this: I am a person that,
as many others, attends to exhibitions and as a journalist of performing arts I have to highlight that architecture, especially in the late XIX and during all the XX century has been very influential toward the other arts and mostly in cinema and dance due to its strength as image. I asked him if, in his opinion, it is still possible that architecture can inspire the performing artist to create unforgettable shows. He answered me that a performance is a moment and that architecture is not a performance, it develops in a long period, that architecture has a different responsibility that can be conveyed in different ways but architects are not artists and they have to be integrated in a social process.
Someone has asked about the set of the exhibition and Chipperfield showed a draft of the set inside the main hall in the Basilica
David Chipperfield’s works are all around the world, from Germany to Japan
The exhibition will be set in Basilica Palladiana, Piazza dei Signori in Vicenza from may 12th 2018 to September 2nd 2018
All the infos about updates and events
http://chipperfield.abacoarchitettura.org
Amburgo: un pomeriggio in musica e storia
Arrivati ad Amburgo, in una piovosa giornata di metà Agosto, una prima definizione che siamo riusciti a trovare per descrivere i fasti e i contrasti di questa affascinante metropoli tedesca, è quella di: “una città moderna, ma non nuova”. E sarà nostro compito, in questo breve articolo, guidarvi non solo verso la comprensione di questa nostra personale chiave di lettura, ma anche in un intrigante itinerario pomeridiano che ci ha portati alla scoperta del panorama artistico, storico e culturale di una città che è stata la dimora di una delle più vivaci scene musicali dell’età moderna.
Sopravvissuta nella sua essenza allo scorrere inesorabile e talvolta nefasto del tempo, come le correnti del fiume Elba che ne hanno forse eroso le rive, o i bombardamenti della seconda guerra mondiale che l’hanno avvolta tra le fiamme, ridotta in cenere e macerie, ma mai scalfita al punto da vedere traviata la propria identità di polo commerciale di grande rilevanza e di capitale di inestimabile valore storico e culturale.
Come una fenice, Amburgo è sempre rinata, ma senza mai lasciarsi alle spalle ciò che è stato di lei o che l’ha resa grande nel tempo. E oggi più che mai lo rivendica con orgoglio, con la stessa tenacia con la quale nei primi anni ’50, la Volkswagen e lo studio DDB di Bernach riuscirono a rompere il muro del pregiudizio verso un progetto tedesco, lanciando l’anacronistico New Beetle nell’agguerrito e nazionalista mercato americano.
Anche in questo caso la Germania si colloca, agli occhi del turista a caccia di storia e cultura, sul podio per quello che concerne la riqualificazione del territorio e la promozione culturale e artistica.
Una città che tanto ammaliò uno dei suoi più illustri cittadini, Johannes Brahms, che perfino durante la sua lunga vita a Vienna ne rimpiangeva i panorami sugli argini e le passeggiate tra le vie natali. L’anti-Wagner che aveva fatto del gusto classicheggiante della società capitalista borghese della Grunderzeit, legata al bisogno di valori certificati da un passato illustre, il cardine compositivo delle sue opere che è ben evidente anche come leif-motiv della pluricentenaria vita amburghese.
Ne è un esempio lampante il “KomponistenQuartier”, fedelmente ricostruito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ad un centinaio di metri dalla elegante stazione liberty di St.Pauli, tra palazzine in mattoni rossi , travi in legno ed eleganti bovindo tinteggiati di bianco.
Qui, affacciato sulla caratteristica Penterstraße, tra il 1971 e il 2016 ha trovato dimora un nuovo complesso di musei: il “Brahms Museum” e l’adiacente museo dedicato ad altri compositori di fama mondiale, ognuno di loro legato indissolubilmente alla scena musicale di Amburgo tra il XVIII e il XIX secolo. Come Georg Philipp Telemann, che definì sagacemente Amburgo come: “la città in cui la musica sembra aver trovato la propria patria”; Carl Philipp Emanuel Bach, meglio conosciuto come: “il Bach di Amburgo”; Johan Adolf Hasse, che cominciò la propria carriera presso la Hamburg Opera House di Gansemarkt; Fanny e Felix Mendelssohn, entrambi nati ad Amburgo e Gustav Mahler, che si trasferì ad Amburgo nel 1891 per ricoprire la carica di Primo Direttore presso l’Hamburg Stadt Theater. Le loro storie e il loro genio raccolto in poche sale, tra partiture originali, libretti e strumenti che permettono di ripercorrere in un avvincente itinerario storico, culturale e artistico la vita di Amburgo “in musica”, dal barocco all’età moderna. Il tutto, in una cornice deliziosamente curata dai numerosi volontari della “Johannes – Brahms – Gesellshaft Internationale Vereiningung e V.”, fondata nel 1969.
E ad Amburgo, per attraversare oltre un secolo di cultura musicale e ritrovarsi lungo gli argini di Baumwall, a pochi metri da una delle più innovative sale concerti al mondo, possono bastare appena tre minuti di tragitto. Come? Lungo il tratto più scenografico della linea U3, la “linea gialla” della metropolitana, che tra St.Pauli, Landungsbruken e Baumwall sfocia in una panoramica sopraelevata sugli argini dell’Elba, oltre i quali potrete ammirare l’imponenza del complesso del Blohm+Voss Shiffswerft, orgoglio della cantieristica e della industria navale tedesca, attivo fin dal 1877.
Ma stavamo parlando, appunto, dell’Elbphilarmonie. Inaugurato nel 2017, con un investimento complessivo di circa 789 milioni di Euro che ha previsto la trasformazione del Kaiserspeicher -il più grande magazzino portuale di Amburgo, costruito nel 1875 e inizialmente adibito al deposito di cacao, tabacco e tè- in una struttura avveniristica: un auditorium unico nel suo genere progettato da Pierre de Meuron, Jacques Herzog e Ascan Mergenthaler. La struttura è inserita nella suggestiva cornice del porto di Amburgo, lungo il fiume Elba. Al suo interno: una Grand Hall da 2.100 posti, una recital hall e una sala da 150 posti specificamente progettata per seminari e workshops curati dal programma di educazione musicale: “World of Instruments”. Ma anche un hotel, un ristorante birreria, una terrazza panoramica e quarantacinque lussuosi appartamenti. Una maestosa struttura in vetro curvato, come un grande cristallo incastonato nella città. Nei suoi 1000 pannelli, non solo sembrano specchiarsi i campanili delle grandi chiese di San Michele e San Pietro, o la vetta in bronzo del grandioso municipio neorinascimentale, ma anche le luci, i colori e i riflessi lungo il torbido corso dell’Elba. Attraverso cui, ancora oggi, navigano lente e solenni grandi navi che con tre fischi lunghi sembrano rendere omaggio a questa, seppur moderna, pietra miliare nel costante processo evolutivo di una grandiosa capitale culturale.
Panta Rhei, diceva Eraclito. Non saranno mai le stesse acque a bagnare le rive di Amburgo, ma resterà ancorata tanto alla memoria quanto al progresso, e non perderà di certo l’occasione di stupirvi.
LOVE – L’arte incontra l’amore al Chiostro del Bramante
Di Roma, Giotto diceva che è la città degli echi, la città delle illusioni, e la città del desiderio. Ma se avesse potuto spiare dal buco della serratura del portone del Giardino degli Aranci all’Aventino, da cui si vede il celeberrimo “cupolone” di San Pietro, avrebbe aggiunto che Roma è senz’altro anche la città delle grandi sorprese e dei tesori celati. Come il Chiostro del Bramante che, se viaggiate in coppia e non vi siete ancora innamorati lungo la passeggiata del Pincio che sovrasta i tetti rossi del centro e le fontane di Piazza del Popolo, o se affrontate una visita in solitaria e cercate di innamorarvi a Roma e di Roma come in un film di Fellini, offre fino al 19 Febbraio 2017 una mostra dal titolo che potrebbe guidarvi verso il vostro
obiettivo meglio di una bussola: “Love – l’arte contemporanea incontra l’amore”. Per cominciare, trovate il vostro partner. Potrete sceglierne ben quattro durante la vostra visita alla mostra: David, John -la nostra scelta- Coco ed Amy.
Love, Amor. Quattro lettere, due sculture e due lingue -l’inglese e il latino- con le quali Robert Indiana vi darà il benvenuto in un percorso di analisi e scoperta del sentimento che già tanto guidò artisti del calibro del Bernini -con Amore e Psiche- o della letteratura come Leopardi o Dante Alighieri, nelle sue forme più lontane e distaccate, come l’amore plastico di Tom Wesselmann in “smoker”, l’adorazione a tratti feticista di quelle labbra rosse e quella sigaretta pendente avvolta in una nube di fumo grigio, dagli evidenti richiami ad un’ ideale di sensualità che posa le sue radici nel fascino delle grandi dive come Marlene Dietrich, Anita Ekberg o Ava Gardner e che, per chi lo ricorda, potrà far tornare alla mente i mille accendini pronti ad accendere la sigaretta di “Malena” nel film di Giuseppe Tornatore. Serie di opere che, tra l’altro, ispirò persino i Rolling Stones per la loro cover di Sticky Fingers.
O ancora, l’amore in grado di trascinarci in realtà kafkiane, oltre i limiti della razionalità, come Ragnar Kjartansson -celebre artista islandese- nelle vesti di un crooner americano impegnato a cantare “Sorrow conquers Happiness” accompagnato da una orchestra ad undici nella sala concerti di Vibesk, in Russia.
Marc Quinn con “Kiss”, invece, vi racconterà di come l’amore possa andare oltre la bellezza del corpo e la proporzione delle forme che l’arte classica ci ha insegnato ad apprezzare nonché accettare, mostrandoci un tenero bacio tra due persone affette da sindrome di Dawn. Ma amore anche per l’arte, appunto, ad opera del bresciano Francesco Vezzoli, che in una serie di squisiti confronti -la cui protagonista indiscussa è Eva Mendes, oltre che lo stesso artista ritratto in un busto impegnato a rubare un bacio ad un affascinante e giovane Apollo- ci mostra il narcisismo dell’età moderna che si specchia con la bellezza classica di opere come la nascita di Venere di Ludovisi, il trionfo di Paolina Borghese e l’Estasi di Santa Teresa.
Una giovane madre, ripresa nelle forme austere delle iconografie sacre della Madonna con Bambino, spogliata dalla propria veste sacra e resa umana come mezzo di narrazione per una maternità che va oltre il fattore biologico, è invece l’ideale di amore sul quale Vanessa Beecroft vorrà farvi riflettere, o sulla nascita e la degenerazione del sentimento -per mezzo del linguaggio cinematografico- secondo Tracey Moffett.
“La più desiderata delle donne con il suo carico di amori infelici” è invece la descrizione più azzeccata per una delle reversal series di “One Multicolored Marylin” di Andy Warhol che troverete esposta verso il termine della vostra visita.
Ma infine, prima di scendere i ripidi scalini del chiostro di Santa Maria della Pace, non perdete l’occasione di entrare letteralmente nella maestosa installazione dell’eclettico Yayoi Kusama: “All the Eternal Love I Have for the Pumpkins”, per una foto ricordo in uno stravagante universo di specchi, luci, riflessi e gialle e splendenti zucche maculate.
“LOVE – l’arte contemporanea incontra l’amore” è in mostra al Chiostro del Bramante fino al 19 Febbraio 2017.
Il Chiostro del Bramante si trova in Via Arco della Pace, 5.
IN METROPOLITANA (Linea A)
Fermata SPAGNA: Circa 20 minuti a piedi (1,6 KM)
Fermata BARBERINI: Circa 21 minuti a piedi (1,8 KM)
AUTOBUS:
Da Stazione Termini*:
Autobus 64 fino alla fermata “Corso Vittorio Emanuele – Navona” – Circa 20 minuti
Autobus 70 fino alla fermata “Senato” – circa 20 minuti
Autobus 40 fino alla fermata “Chiesa Nuova” – circa 21 minuti
* I tragitti da altre fermate e gli orari sono disponibili sul sito: http://www.atac.roma.it nella sezione “Linee e Mappe”.
Il Chiostro del Bramante, inoltre, dista meno di 1KM da: Piazza Navona, Pantheon, Palazzo Farnese, Campo de Fiori, Galleria Alberto Sordi e Via del Corso.
San Pietroburgo: La capitale degli zar
C’era una volta Parigi con gli Champs-Élysées illuminati a giorno e le vetrine decorate da fregi dorati e lampade art-decò, gli sfarzi della Reggia di Versailles e l’imponente eleganza di Place de la Concorde, il colonnato corinzio del Tempio di Adriano a Roma e le gallerie commerciali di Piccadilly Circus. Ma poi, affacciata su quel tratto del Mar Baltico che separa l’occidente dalle sconfinate lande a nord dei Balcani e ad est delle grandi capitali centenarie di una allora Europa ancora scossa dalla Guerra di Secessione Spagnola e dalla Grande Guerra del Nord, un moderno Cezar – da questo il nome Zar, per l’appunto- di nome Pietro il Grande decise, nel Maggio del 1703, di deporre la prima pietra sul terreno paludoso dell’isola delle Lepri per dare inizio alla costruzione di una capitale che, con la cooperazione delle più grandi “archi-star” del XVI Secolo- tra cui il ticinese Domenico Trezzini e il napoletano Carlo Rossi- potesse dimostrare a sovrani, ambasciatori e grandi menti dell’epoca dei lumi che una nuova potenza stava per far sentire il proprio ruggito oltre il Danubio dalle acque ghiacciate decantato da Ovidio nel Tristia: l’Impero Russo.
Dalle mura della Fortezza dei Santi Pietro e Paolo, nucleo originario della città, forte di difesa dell’unico sbocco sul Baltico dell’Impero -ex carcere e sede della Cattedrale nella quale sono conservati i resti dell’ultima dinastia imperiale, i Romanov- la ex-capitale si è estesa negli anni oltre le sponde grigie della Neva, oltre le Colonne Ramate e i dieci ponti levatoi che la attraversano–tra i quali il ponte Troitskij, la cui progettazione fu inizialmente affidata a Gustave Eiffel- lungo gli oltre cinque chilometri della Nevskij Prospekt in un impressionante susseguirsi di eleganti negozi e gallerie commerciali, tra le quali la più famosa è senz’altro la Gostiny Dvor costruita nel 1721, l’imponente facciata art-nouveau della storica libreria Dom Knigi, la Cattedrale di Kazan’ costruita da Andrej Voronichin sul modello della Basilica di San Pietro, fino alla Cattedrale di Sant’Isacco e il Palazzo dell’Ammiragliato, le cui vette dorate fendono ancora oggi la nebbia delle prime ore del mattino.
Ma ancora la Porta Trionfale di Mosca, costruita interamente in ghisa, l’incrociatore Aurora saldamente ancorato a pochi passi dall’unica moschea della città nel distretto di Petrogradskij e la scultura dedicata a Lenin di fronte alla Casa dei Soviet che sembra guidare il traffico lungo piazza Maskovaskaja sulla strada per Pushkin, sede della sontuosa reggia di Caterina.
Simboli di due diversi poteri racchiusi in un’unica città, una storia che stride ma che non teme di essere mostrata e raccontata. Ma che, al contrario, va preservata e messa a disposizione di tutti coloro che ci sono, che continueranno ad esserci e a conoscere inesorabilmente quella parte di un patrimonio comune, in quanto parte di una identità nazionale e culturale, che neppure la severità del dominio zarista, le baionette dei bolscevichi o la dissoluzione del regime sono riusciti a ledere.
Come il maestoso complesso di Tsarskoe Celo –il villaggio degli zar- sede del Palazzo di Caterina la Grande ma interamente costruito dalla figlia Elisabetta, conosciuto principalmente per la sua “enfilade dorata” e lo Studio di Ambra, abbandonato dopo la Rivoluzione di Ottobre e conquistato dalle truppe naziste durante l’assedio di Leningrado, razziato, dato alla fiamme durante la fuga e sapientemente restaurato già a partire dagli anni subito successivi al conflitto. Completato solo nel 2003, ad oggi definito come: “uno dei più grandi successi mediatici di Vladimir Putin” o il tesoro dell’Hermitage conservato in oltre trenta chilometri di sale divise in cinque differenti palazzi e che, tra lampadari d’argento, intarsi in madreperla, imponenti colonnati, portoni in ebano, bronzo e guscio di tartaruga e una impressionante copia delle celeberrime Logge di Raffaello, ospita collezioni e pezzi unici come “Bacio di Cupido e Psiche” di Canova, la “Madonna di Benois” di Leonardo da Vinci, il “San Sebastiano” di Perugino e “Ritorno del figliol prodigo” di Rembrandt, oltre che sculture classiche, vasi e portici in malachite, sarcofagi egizi, papiri e steli acquistate negli anni dagli ambasciatori della famiglia imperiale.
Oppure l’impressionante, seppur esigua, collezione ospitata nell’elegante palazzo Yusupov che vanta, tra l’altro, un grazioso teatro all’italiana, arazzi fiamminghi, pavimenti in legni tropicali e saloni ispirati alle correnti stilistiche in voga nel XVIII secolo, come il neoclassico russo e il barocco italiano. Famosa dimora della aristocratica e poderosa famiglia Yusupov, nota per aver dato i natali al marito della affascinante principessa Irina Aleksandrovna Romanov: Feliks Feliksovic Yusupov. Colui che, nella notte tra il 16 e il 17 Dicembre 1916, partecipò al complotto per
l’omicidio dello stretto consigliere dello zar Nikolaj II: Grigorij Rasputin. Dopo l’omicidio, avvenuto nelle segrete del palazzo, la famiglia riuscì a fuggire verso Londra con il supporto del Re Giorgio V di Inghilterra a bordo della HMS Marlborough, per poi stabilirsi a Parigi a partir dal 1920.
Cultura, storia, arte ma anche gusto e tradizione. La Leningrad Rassolnik del KoKoKo Restaurant, la zuppa di Leningrado a base di carne , patate, cipolle e orzo perlato è ancora un piatto fortemente consigliato insieme alla tipica Kulebyaka di carne di coniglio e il caviale -“l’oro nero della Russia”- che resta insieme al balletto e le ceramiche policrome della Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, il grande orgoglio della Russia. Una serata di buona cucina, musica, balli e costumi tradizionali è invece il piatto forte del celebre Ristorante Katyusha, decorato da pizzi, vassoi in stile tradizionale Zhostovo e divani avvolti da morbidi scialli Pavloposadsky, per brindare con una vodka all’urlo di “Nazdarovja!” e provare una Russish Salad che, vi stupirà sapere, si tratta dell’autentica insalata russa.
LINK UTILI:
Reggia di Caterina a Tsarskoe Celo: http://eng.tzar.ru/
Hermitage Museum: https://www.hermitagemuseum.org/wps/portal/hermitage/
Yusupov Palace: http://www.saint-petersburg.com/palaces/yusupov-palace/
Cococo Restaurant: https://www.kokoko.spb.ru/en/
Katyusha Restaurant: https://en.ginza.ru/spb/restaurant/katyusha
Cruiser Aurora: http://www.saint-petersburg.com/museums/cruiser-aurora/
New York: esserne una parte
Sorvolare l’Atlantico e planare sui tre chilometri e ottocento della pista del John Fitzgerald Kennedy, principale scalo aeroportuale dello stato di New York, ha senz’altro sostituito il fascino del transito sotto il Ponte di Verazzano e della spettacolare navigazione in quel tratto di mare –o di fiume?- stretto tra Governors ed Ellis Island, antico arsenale militare che negli anni della grande emigrazione dal vecchio continente divenne il principale punto di ingresso degli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti. E non sarà neppure il fragore metallico di una passerella del Pier 90 ad accogliervi, ma in una New York che sembra ancorata al suo charme, ai suoi luoghi e alla sua storia che parla ancora di portoni Art-Deco, shopping sulla Fifth Avenue e carrozze lungo il Central Park, la sagoma del “Rex” ritratto da Fellini in Amarcord sembra poter spuntare da un momento all’altro tra la giungla di cemento del Financial District, oltre Battery Park, solcando le severe e scure acque del fiume Hudson.
Perché New York è anche questo, passato e futuro che si incontrano e si amalgamano senza respingersi, in uno straordinario processo di mitosi di culture che convivono in un tratto di terra che si allunga come un lungo braccio di 21,6Km verso l’Europa e che si può vedere e toccare con mano tra i Pub irlandesi a Midtown o assaporare in una tipica pietanza greca all’Estiatorio Milos sulla 55Th St o in una birra e una tagliata di carne alla Peter Luger Steakhouse di Brooklyn.
New York è frenetica, viva, caotica ma ancora curiosa di conoscere e di raccontare storie. Le “People of New York”, che ogni giorno attraversano quel guazzabuglio di cunicoli sottostanti lo snodo della metropolitana di Columbus Circle intenti a rientrare nelle loro abitazioni, spesso lontane da Manhattan, dopo una giornata di lavoro e che, nonostante ignorino il fatto che Colombo fosse italiano e nato a Genova –qualcuno potrà dirvi che era portoghese o comunque from somewhere near Spain– accantonano la diffidenza e il pregiudizio pronti a conoscere o a scambiare opinioni , impressioni o semplicemente due consigli su come vivere al meglio una città che non lascia dubbi sul fatto che possa essere così amata –e rispettata- da coloro che ogni giorno contribuiscono –più o meno consciamente- a mantenere viva nella mente di un visitatore quell’immagine della “città che non dorme mai” che già nel 1924 ispirò Gershwin con la sua “Rhapsody in Blue”, notoriamente ispirata alla realtà metropolitana newyorkese, o Francis Scott Fitzgerald e il suo “Great Gatsby”.
Esserne una parte, come cantavano Frank Sinatra e Liza Minelli, svegliarsi e lasciarsi trascinare da quelle scarpe vagabonde tra i marciapiedi della Midtown Manhattan fino a Bryant Park per un caffè americano e uno sguardo fugace al New York Times che riporta i risultati delle primarie USA per lo stato di New York, che hanno visto il trionfo della candidata democratica Hillary Clinton e del repubblicano Donald Trump, proprietario, tra l’altro, di uno dei più noti edifici affacciati sulla Fifth Avenue, ai piedi del celeberrimo Central Park.
Un hot-dog all’ombra dell’Ago di Cleopatra del XV Secolo a.C , donato da Isma’Il Pascià allo stato di New York e il cui trasporto fino alla sua attuale location fu interamente finanziato dal mecenate William Henry Vanderbilt nel 1881, o una visita alla Frick Collection, ex residenza del magnate dell’acciaio Henry Clay Frick, che ospita tra le sue mura capolavori di artisti del calibro di Tiziano e Piero della Francesca. Perdersi nella vastità del MOMA, lasciarsi abbagliare dalle luci di Times Square o seguire dagli occhi di David Bowie in qualche murales nell’East Village affollato da giacche di pelle, lounge, club e comedy bar.
Come un enorme palcoscenico, contro qualsiasi indicazione e qualsiasi guida, la bravura di un ottimo performer che decide di mettere in scena una visita a New York, resta ancora l’improvvisazione, la fame, la curiosità e la consapevolezza che neppure la vetta della Freedom Tower è il limite per una città che non sarà mai la stessa, visita dopo visita.
Parigi val bene una messa
La celebre frase di Enrico di Navarra, che nel momento in cui a termine della sanguinosa Guerra dei tre Enrichi del ‘500 dovette convertirsi al cristianesimo per salire sul trono di Francia, è la prima frase che viene in mente quando, al termine degli scalini umidi di pioggia della fermata Saint-Michel del Metro B della capitale francese, ci si ritrova immersi nell’aria gelida e pungente che soffia lungo la Senna sotto il cielo plumbeo di una giornata di fine Novembre e il consueto accalcarsi indistinto di turisti tra la Rue de la Cite’, la Promenade di Quai Saint-Michel e il portale del Giudizio Universale della cathedrale di Francia.
Ma se tra il venditore ambulante di selfie sticks e le biglietterie dei bateau mouche c’è una camionetta della Gendarmerie de France, ad appena otto giorni dagli attentati terroristici del 13 Novembre 2015, i riflessi dell’Ala Denon del Louvre sulla superficie increspata della Senna passano in secondo piano e c’è chi preferisce inquadrare nel proprio obiettivo i giubbotti anti proiettili del gendarme che tanto ricordano quelli già visti nelle riprese della drammatica incursione al Bataclan o alla sede di Charlie Hebdo.
Parigi risponde bene e come sempre la verve combattiva tipicamente francese si distingue nei gesti, nelle parole e nel modo in cui a viso scoperto la Ville Lumiere non si fa spegnere nemmeno da 118 morti nel X Arroundisment, a quindici minuti dal Parlamento. In una sorta di revanchismo del XXI Secolo, la Francia non ringrazia chi le fa forza, glissa le domande in un “è quello che dobbiamo fare” e tutti capiscono le lingue straniere ma nessuno le sa apparentemente parlare. Come è sempre stato.
I mercati di natale di Place de la Concorde e i negozi degli Champes Elisee restano gremiti di turisti e per qualhe istante tutto sembra attenuarsi tra bancarelle di huitre de Normandie, degustazioni di formaggi, escargot e tovagliette con ricami natalizi. Ma basta una mano sul petto da parte della security di Zara e la richiesta di controllare borse e cappotti a farvi ripiombare in una realtà che maschera la tensione tra le luci e gli sfarzi di una sfavillante capitale centenaria.
Fermate della metro, luoghi di culto –persino la meno nota Eglise de Saint German de Prés – sono controllate agli ingressi da forze dell’ordine in divisa e fucile imbracciato, tra i flash dei turisti e i tavolini dei dehors dei bistrot dove potrete comunque, se all’apparenza vi sentite sicuri di farlo, sorseggiare un vin chaud mentre un senzatetto all’angolo suona con la sua fisarmonica il ritornello di “Sous le Ciel de Paris” di Edith Piaf.
Il Sacre Coeur, il monumento più bianco di Europa insieme al Vittoriano di Roma, continua a svettare e dopo una fredda pioggia di metà autunno sarà sempre più bianco. Le tre cupole dominano la città dalla collina ai piedi del IX e del X Arroundissment, dove al fondo del Boulevard de Magenta, a Place de la Republique i manifestanti iniziano a scaldarsi all’urlo di “Paris en Marche!” per l’inizio della “Conferenza Internazionale sul Clima” che terrà Parigi paralizzata per una giornata intera, il 29 Novembre, quando si conteranno 289 fermi e 174 arresti.
Gli attacchi alla capitale del XIX secolo, come fu definita da Walter Benjamin nel 1939, città pioniera della moderna urbanizzazione e del progresso tecnologico e artistico che l’hanno vista protagonista indiscussa della Belle Epoque, è senz’altro un punto di rottura fino ad ora mai raggiunto all’interno dello spirito occidentalista che ha sempre ritenuto la propria realtà separata da un muro invisibile e intangibile dall’oriente lontano, mistico e dispotico. Rottura che si realizza –o viene percepita?- solo al culmine di un processo di progressivo allentamento dei confini territoriali dovuti alle “rotte della speranza”dall’Africa, alla caduta dei regimi dittatoriali nel Maghreb fino all’impoverimento dovuto alle guerre in Siria e Vicino Oriente, verso l’Europa e le ex madrepatrie coloniali.
Una presenza che all’apparenza non spaventa la Francia per la propria natura o per il proprio credo ma per l’incontrollabilità delle azioni del “califfato” e per l’influenza che queste potrebbero avere per mezzo della propaganda
fondamentalista, anti-occidentale e filo-islamista facendo leva sui caratteri culturali e religiosi intrinsechi non solo delle prime quanto anche delle seconde generazioni di immigrati islamici in Francia.
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